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Enciclopedia della salute

ENCICLOPEDIA DELLA SALUTE

(Ministero della Salute)

Tumore della Prostata

Con circa 36mila casi nel 2012, il tumore della prostata è la neoplasia più frequente nella popolazione maschile italiana se si escludono i tumori cutanei. Sono invece più di 200mila le persone in vita che abbiano ricevuto in passato una diagnosi di questa forma tumorale.

Nonostante l’88% delle persone con tumore della prostata sopravviva a 5 anni dalla diagnosi, l’alta diffusione della malattia la rende la terza causa di morte per tumore nella popolazione maschile (8% di tutti i decessi per cancro).

 

Segni e sintomi

Il tumore della prostata è una forma tumorale che si sviluppa molto lentamente e perciò non dà sintomi per molti anni. I sintomi, nell’era precedente alla scoperta dell’Antigene prostatico specifico (Psa), erano legati alla comparsa di metastasi ossee.

Oggi la diagnosi avviene precocemente grazie al dosaggio del Psa e quindi in pressoché totale assenza di sintomi.

Negli stadi più avanzati il cancro della prostata può dare altri sintomi connessi soprattutto all’estensione del tumore ad altri organi. I più comuni sono dolore, perdita di appetito e perdita di peso.

 

Cause

Non sono note cause specifiche del cancro della prostata. Tuttavia esistono diverse condizioni che possono aumentare il rischio di sviluppare la malattia:

  • storia familiare: la presenza di familiari che abbiano ricevuto una diagnosi di cancro alla prostata aumenta il rischio di sviluppare la malattia. Il rischio è più alto anche per chi abbia in famiglia un parente di sesso femminile che si sia ammalato di cancro al seno
  • obesità: diversi studi hanno messo in relazione il peso elevato e il rischio di sviluppare il tumore della prostata
  • sedentarietà: uno stile di vita sedentario favorisce lo sviluppo del tumore
  • alimentazione: alcuni studi hanno suggerito che una dieta con un contenuto troppo elevato di vitamina D possa essere connessa allo sviluppo del cancro della prostata

 

Terapia

Il trattamento del cancro alla prostata dipende dalle caratteristiche del tumore e del paziente e prevede una molteplicità di approcci:

  • attesa: non sempre è necessario avviare un trattamento. Il tumore della prostata è infatti una neoplasia a crescita molto lenta che spesso, pur essendo presente, può non alterare la qualità né l’aspettativa di vita. Per questa ragione si può scegliere di attendere i primi sintomi o sottoporsi a controlli regolari che tengano sotto controllo eventuali cambiamenti della ghiandola, intervenendo con la terapia quando è necessario
  • chirurgia: la prostatectomia radicale (cioè la rimozione della prostata ) può essere una delle opzioni terapeutiche in caso di cancro. L’intervento è sicuro ma non esente da rischi: i più comuni sono l’incontinenza urinaria e la disfunzione erettile. Inoltre la rimozione della prostata comporta una perdita irreversibile della fertilità.
  • Altre opzioni chirurgiche sono l’orchiectomia(cioè l’asportazione dei testicoli), che consente di ritardare l’evoluzione del tumore, e la resezione transuretrale che attraverso l’inserimento di una sonda nell’uretra consente di “scavare” dall’interno la prostata e contrastare i sintomi urinari associati al suo ingrossamento
  • radioterapia: impiega le radiazioni per uccidere le cellule tumorali. La radioterapia può essere somministrata sia dall’esterno, con apparecchiature simili a quelle impiegate per la radiografia, o dall’interno dell’organismo. In tal caso, la tecnica è definita brachiterapia e consiste nell’impianto chirurgico di piccoli “semi” radioattivi direttamente nella ghiandola
  • terapia ormonale: gli ormoni, in particolare il testosterone, contribuiscono alla crescita delle cellule del cancro della prostata. L’obiettivo della terapia ormonale è bloccare gli effetti del testosterone
  • chemioterapia: consiste nella somministrazione di farmaci molto aggressivi in grado di uccidere le cellule tumorali. In genere viene impiegata nelle forme avanzate di tumore della prostata che si sia già diffuso ad altri organi

 

Prevenzione

Non esistono strategie efficaci di prevenzione o di diagnosi precoce del tumore della prostata. Da anni si discute dell’impiego a questo scopo del test del Psa.

Tuttavia, allo stato attuale delle conoscenze, si è ritenuto che i rischi legati alla periodica esecuzione dell’esame siano maggiori dei suoi benefici.

Il Psa non è un parametro sufficientemente affidabile poiché molte delle persone con valori alterati di Psa non hanno un tumore alla prostata e, viceversa, molte persone con tumore alla prostata hanno livelli di Psa normali.

Inoltre, quello della prostata è un tumore a crescita molto lenta che il più delle volte, anche se presente, non incide sulla qualità né sull’aspettativa di vita. Pertanto, l’esecuzione di indagini a tappeto sulla popolazione con il Psa esporrebbe ai rischi legati al trattamento (per esempio incontinenza urinaria e disfunzione erettile) anche quelle persone che non avrebbero avuto alcun danno dalla presenza del tumore.

Sono comunque allo studio marcatori più specifici in grado di dare informazioni non solo sulla presenza del tumore, ma anche sulla sua aggressività.

Tumore della cervice uterina

Il cancro della cervice uterina è un tumore della sfera genitale femminile che colpisce la parte più esterna dell’utero (detta anche collo o portio), quella cioè facilmente esplorabile con la visita ginecologica.
Il tumore è causato da un’infezione persistente da papillomavirus umano (HPV), trasmesso per via sessuale e molto frequente soprattutto nelle giovani. La maggior parte delle infezioni regredisce spontaneamente; quando l’infezione persiste nel tempo si formano lesioni nel collo dell’utero, che possono evolvere in cancro. Il rischio di cancro dipende fortemente da alcuni tipi ben identificati di virus HPV ma è favorito da: scarso accesso alla prevenzione, numero di partner, giovane età di inizio dell’attività sessuale, stati immunodepressivi, fumo di sigaretta e contraccezione ormonale.

 

Segni e sintomi

l cancro della cervice uterina, ai suoi stadi iniziali, il più delle volte non dà alcun sintomo. In genere i primi segnali di allarme sono:

  • sanguinamento vaginale (specie dopo un rapporto sessuale), talvolta accompagnato da secrezioni maleodoranti
  • dolore nella parte bassa dell’addome

Quando il tumore è in fase più avanzata possono presentarsi sintomi dovuti alla crescita del tumore e, quindi, al coinvolgimento degli organi adiacenti:

  • costipazione
  • sangue nell’urina
  • dolore alle ossa e alla schiena
  • gonfiore di una delle gambe
  • perdita di appetito e di peso

 

Cause

Il cancro della cervice uterina è il primo tumore per cui sia stata riconosciuta una causa infettiva. Origina infatti da lesioni causate da infezioni da Papillomavirus umano (HPV), un virus molto comune che si trasmette prevalentemente per via sessuale.

Esistono oltre 100 tipi di Papillomavirus: alcuni di essi sono responsabili di lesioni benigne come i condilomi (HPV tipo 6 e 11), altri sono in grado di produrre lesioni pre-invasive (displasie) e invasive, cioè il tumore della cervice uterina (specie i virus di tipo 16 e 18).

L’infezione da Papillomavirus è la più frequente tra le infezione sessualmente trasmesse. Tuttavia, soltanto una piccola parte delle infezioni (circa il 10%) può evolvere verso forme tumorali, specie in presenza di alcuni cofattori (fumo di sigaretta).

La maggior parte delle infezioni, invece, è transitoria e guarisce spesso spontaneamente.
In genere il tempo che intercorre tra l’infezione e l’insorgenza delle lesioni precancerose è lungo (alcuni 5 anni); perché si sviluppi il tumore della cervice vero e proprio possono invece occorrere decenni.
Questi lunghi tempi consentono di attuare con efficacia i test di screening (pap-test e test virale) e di avere ottimi risultati in termini di prevenzione. Ovviamente, l’adesione al programma nazionale di vaccinazione HPV consentirà un maggior livello di protezione della popolazione vaccinata.

 

Diagnosi

La diagnosi di cancro del collo dell’utero si avvale di diverse indagini:

  • la visita ginecologica è il cardine della diagnostica, poiché si basa sulla facile visibilità ed esplorabilità del collo dell’utero
  • la colposcopia è un esame di approfondimento diagnostico che, mediante una fonte luminosa ed un sistema di ingrandimento, visualizza le aree a maggior rischio
  • la biopsia consiste in un prelievo di tessuto delle aree in cui si sospetta la presenza di cellule tumorali. In genere viene eseguita contestualmente alla colposcopia
  • la tac e la risonanza magnetica sono impiegate per valutare se e quanto il tumore è esteso.

 

Terapia

Il tipo di terapia impiegata nei pazienti con cancro del collo dell’utero dipende soprattutto dallo stadio del tumore.
A seconda dei casi può comprendere:

  • la chirurgia: il grado di aggressività dell’intervento dipende dall’estensione del tumore. La conizzazione, cioè la rimozione di un “cono” di tessuto in corrispondenza della lesione, può essere attuata solo in alcuni selezionati casi molto iniziali.
  • Negli altri casi, cioè quando il tumore è di piccole dimensioni (<4cm) e confinato alla portio, il trattamento chirurgico consiste nella isterectomia radicale: rimozione di tutto l’utero cervice uterina, annessi, delle parti immediatamente circostanti (parametri) e dei linfonodi regionali.
    I tumori estesi agli organi adiacenti (vescica e retto) di solito vengono trattati con protocolli di radio-chemioterapia e molto raramente, in situazioni selezionate, con procedure chirurgiche ultra-radicali
  • la radioterapia: consiste nell’utilizzo di radiazioni per distruggere le cellule tumorali presenti nell’organismo. Può essere somministrata in maniera tradizionale dall’esterno o dall’interno: in tal caso un dispositivo in grado di emettere radiazioni viene inserito nel canale vaginale in modo da colpire selettivamente l’area interessata dal tumore e ridurre gli effetti collaterali
  • la chemioterapia: è in genere impiegata nelle forme più avanzate di cancro della cervice. Specie per rallentare la progressione del cancro e alleviarne i sintomi.

 

Prevenzione

Il cancro della cervice uterina può essere efficacemente prevenuto sia attraverso la diagnosi precoce, sia mediante la vaccinazione contro il Papillomavirus.

La diagnosi precoce rappresenta l’arma più efficace nella prevenzione del carcinoma della cervice uterina. In Italia la diffusione del Pap-test a livello spontaneo, a partire dagli anni ’60 e, soprattutto, l’avvio dei programmi di screening organizzato hanno rappresentato i principali fattori di riduzione dell’incidenza e ancor più della mortalità per questa neoplasia.

Il Pap-test consiste in un prelievo di una piccola quantità di cellule del collo dell’utero eseguito strofinando sulle sue pareti una spatolina e un tampone.

Tumore della mammella

Il cancro al seno è il tumore più frequente nel sesso femminile. I numeri del cancro in Italia 2017 confermano che il carcinoma mammario, non considerando i carcinomi cutanei, è la neoplasia più diagnosticata nelle donne, in cui circa un tumore maligno ogni tre (28%) è un tumore mammario.

Si stima che nel 2017 verranno diagnosticati in Italia circa 50.000 nuovi casi di carcinomi della mammella femminile.
Nel 2014 il carcinoma mammario ha rappresentato la prima causa di morte per tumore nelle donne, con 12.201 decessi (fonte ISTAT).

Dalla fine degli anni Novanta si osserva una continua tendenza alla diminuzione della mortalità per carcinoma mammario (-2,2%/anno), attribuibile a maggiore diffusione dei programmi di diagnosi precoce e quindi all’anticipazione diagnostica ed anche ai progressi terapeutici.

Il seno è costituito da grasso, tessuto connettivo e una serie di strutture ghiandolari (lobuli) organizzata nei cosiddetti lobi, responsabili della produzione di latte che viene escreto attraverso sottili canali definiti dotti mammari.

Ci sono diversi tipi di tumore al seno, che possono svilupparsi in diverse parti del seno. Una prima importante distinzione può essere fatta tra forme non invasive e forme invasive.
Le forme non invasive, dette anche carcinoma in situ, si sviluppano nei dotti e non si espandono al di fuori del seno. Difficilmente questa forma dà luogo a noduli palpabili al tatto, più spesso viene identificata attraverso la mammografia. La più comune forma di carcinoma in situ è il carcinoma duttale in situ.
Il cancro al seno invasivo ha la capacità di espandersi al di fuori del seno. La forma più comune è il carcinoma duttale infiltrante, che rappresenta circa i 3/4 di tutti i casi di cancro della mammella.
Il cancro al seno può diffondersi ad altri organi, in genere attraverso i linfonodi.
Raramente dà dolore. Spesso il primo sintomo riconoscibile è un nodulo o un’area ispessita nel seno. Per fortuna la maggior parte dei noduli, circa il 90% non sono forme tumorali.

 

Segni e sintomi

Il cancro della mammella raramente dà dolore. Spesso, il primo sintomo riconoscibile è un nodulo o un’area ispessita nel seno (tuttavia la maggior parte dei noduli, circa il 90% non sono forme tumorali)

Altri possibili sintomi del tumore del seno sono:

  • cambiamenti nella forma o nelle dimensioni di uno o di entrambe le mammelle
  • perdite dai capezzoli
  • rigonfiamenti sulle ascelle
  • avvallamenti, fossette sulla pelle del seno
  • arrossamenti intorno al capezzolo
  • cambio nell’aspetto del capezzolo o retrazione dello stesso
  • alterazione della cute (cute a buccia d’arancia)
  • dolore ingiustificato al seno o all’ascella.

 

Cause

Il cancro al seno è il risultato di una crescita incontrollata di alcune cellule del seno. Le  cause esatte di questa trasformazione non sono chiare, tuttavia esistono numerosi fattori che aumentano le probabilità di una trasformazione delle cellule in senso tumorale. I principali sono:

  • L’età
    Il rischio di ammalarsi di cancro al seno aumenta con l’età. Questa forma tumorale è più frequente dopo i 50 anni: 8 casi su 10 si verificano dopo questa età
  • La storia familiare La presenza di familiari stretti che si sono ammalati in precedenza di cancro della mammella aumenta notevolmente le probabilità di ammalarsi
  • La genetica Possedere specifiche varianti di alcuni geni (due in particolare, denominati BRCA1 e BRCA2) può aumentare il rischio di sviluppare questa forma tumorale. È possibile (anche se non automatico) che queste forme genetiche vengano trasmesse dai genitori ai figli
  • I precedenti per cancro alla mammella Le persone che sono state già affette da cancro al seno hanno una probabilità più alta della popolazione generale di essere nuovamente colpite dalla malattia, sia alla stessa mammella sia all’altra
  • Il seno denso Il seno è composto da migliaia di piccole ghiandole definiti lobuli deputate alla produzione di latte. Nel caso in cui è presente una più alta concentrazione di queste cellule il seno si presenta più denso. Le donne con seno denso hanno maggiori probabilità di sviluppare il cancro al seno, proprio in virtù del più alto numero di cellule che possono trasformarsi in cellule tumorali. Il seno denso è inoltre una condizione che rende più difficile leggere la mammografia e identificare l’eventuale presenza di formazioni tumorali. La densità del seno tende a decrescere con l’età: le strutture ghiandolari vengono infatti man mano sostituite da tessuto grasso
  • L’esposizione agli estrogeni In alcuni casi, le cellule tumorali possono essere stimolate a crescere dagli estrogeni, ormoni fisiologicamente presenti nell’organismo femminile fondamentali per la salute riproduttiva. Maggiore è l’esposizione a questi ormoni più alto è il rischio di cancro
  • Il sovrappeso e l’obesità Le donne che raggiungono la menopausa in sovrappeso o obese sono a maggior rischio di cancro al seno. La ragione di ciò potrebbe risiedere nella maggiore produzione di estrogeni che si verifica nelle persone con una alta percentuale di grasso corporeo
  • Il consumo di alcol Il rischio di cancro aumenta all’aumentare del quantitativo di alcol consumato. In particolare, per ogni 200 donne che bevono due unità alcoliche al giorno, si verificano 3 casi in più di cancro al seno.
  • Le radiazioni Alcune procedure mediche che usano radiazioni, come i raggi X o la Tac, possono aumentare il rischio di sviluppare cancro al seno
  • La terapia ormonale sostitutiva La terapia ormonale sostitutiva, impiegata per alleviare i sintomi tipici della menopausa, è associata a un lieve aumento del rischio di cancro al seno.

 

Diagnosi

In presenza di un sospetto di cancro al seno, esistono diversi esami per confermare la diagnosi:

  • la mammografia è il primo test a cui si ricorre; consiste in un esame ai raggi X della mammella. È usato anche come test di screening per la diagnosi precoce di questa neoplasia
  • utile è anche l’ecografia che, invece, usa gli ultrasuoni ed è particolarmente utile in caso di seno denso
  • la biopsia consiste nel prelievo di un piccolo campione di tessuto dal seno. Le cellule vengono poi analizzate al microscopio (esame istologico) per verificare se sono o meno tumorali. Può essere necessario effettuare un esame istologico anche biopsia dei linfonodi dell’ascella per verificare se il cancro si è diffuso ad altri tessuti.

Tra le nuove metodiche recentemente introdotte in questa patologia vi è la risonanza magnetica nucleare mammaria che fornisce ulteriori dettagli ed ha una sensibilità più elevata rispetto ad ecografia e mammografia.

Terapia

La terapia per il cancro al seno comprende diverse opzioni, che sono spesso combinate tra loro sulla base delle caratteristiche del paziente: la chirurgia, la radioterapia, la chemioterapia, la terapia ormonale, la terapia biologica.

Chirurgia

La chirurgia rappresenta in genere il primo step nel processo terapeutico delle persone con cancro al seno. Ci sono due tipi di chirurgia: quella conservativa, che rimuove soltanto la porzione di seno interessata dal tumore e la mastectomia, cioè la rimozione dell’intera mammella. Quest’ultima può essere seguita dalla chirurgia ricostruttiva per impiantare un nuovo seno dopo la rimozione.

Diversi studi hanno dimostrato che per i tumori allo stadio iniziale la terapia conservativa, seguita dalla radioterapia, è altrettanto efficace della mastectomia.

La chirurgia conservativa può avere diverse gradazioni che dipendono dal tipo di tumore, dalle dimensioni dalla localizzazione, dalla quantità di tessuto circostante al tumore che deve essere rimosso, dalle dimensioni del seno.

Sulla base di queste caratteristiche l’equipe medica può decidere se rimuovere soltanto il tumore e una piccola parte del tessuto circostante o una porzione più ampia della mammella (circa un quarto, per questo l’intervento è definito quadrantectomia). Dopo un intervento di chirurgia conservativa può seguire la radioterapia per “uccidere” le eventuali cellule tumorali residue.

La mastectomia consiste nella rimozione dell’intero tessuto della mammella, compreso il capezzolo. Nel caso in cui il tumore si sia diffuso ai linfonodi potrebbe essere necessario un intervento più invasivo (svuotamento ascellare) che comporta la rimozione dei linfonodi posti sotto le ascelle. Per conoscere se sono coinvolti anche i linfonodi si usa la tecnica del cosiddetto “linfonodo sentinella”. Il sistema linfatico è costituito da una rete di fasi intervallati da linfonodi posti in sequenza: il “linfonodo sentinella” è il primo a essere raggiunto da cellule tumorali che migrano dal tumore. L’analisi di questo linfonodo può dunque dare indicazioni preziose sulla natura del tumore: se è circoscritto al seno o ha iniziato a diffondersi ad altri tessuti.

Chemioterapia

La chemioterapia consiste nella somministrazione di potenti farmaci in grado di uccidere le cellule tumorali. È in genere usata dopo la chirurgia per distruggere le cellule tumorali residue. In tal caso è definita chemioterapia adiuvante.

In alcuni casi si preferisce somministrare la chemioterapia prima del trattamento chirurgico per ridurre le dimensioni del tumore. In tal caso si parla di terapia neo-adiuvante.

Radioterapia

La radioterapia usa dosi controllate di radiazioni per uccidere le cellule tumorali. Viene in genere impiegata dopo la chirurgia e dopo la chemioterapia per distruggere eventuali cellule residue.

Terapia ormonale

Alcuni tumori del seno sono stimolati a crescere da ormoni fisiologicamente presenti nell’organismo (gli estrogeni): per questo vengono definite “positive per il recettore degli estrogeni”.
La terapia ormonale consiste in un trattamento in grado di ridurre i livelli di questi ormoni. Esistono diversi farmaci che svolgono questa funzione: la scelta viene effettuata sulla base delle caratteristiche del tumore e della persona.

Farmaci biologici

Alcuni tumori possiedono sulla propria superficie un numero abnorme di una particolare proteina Her2 (Human Epidermal Growth Factor Receptor 2). Questa proteina, in condizioni normali regola la crescita e la proliferazione della cellula, ma se presente in numero eccessivo causa una crescita cellulare incontrollata. Da alcuni anni è disponibile un farmaco (trastuzumab) in grado di attaccarsi a questa proteina impedendo alle cellule tumorali di crescere e moltiplicarsi. In genere trastuzumab viene impiegato insieme alla chemioterapia.

 

Prevenzione

La prevenzione è importantissima. Lo screening per la diagnosi precoce del tumore mammario si rivolge alle donne di età compresa tra i 50 e i 69 anni e si esegue con una mammografia ogni 2 anni.
In alcune Regioni si sta sperimentando lo screening tra i 45 e i 74 anni (con una periodicità annuale nelle donne sotto ai 50 anni) I programmi organizzati di screening prevedono che l’esame venga eseguito visualizzando la mammella sia dall’alto verso il basso che lateralmente.

La prevenzione del tumore della mammella passa anche per stili di vita corretti. In particolare, si sono dimostrate efficaci alcune strategie:

  • non fumare
  • seguire una corretta alimentazione
  • praticare un’attività fisica regolare .

Numerosi studi hanno inoltre dimostrato che le donne che allattano al seno hanno minori probabilità di ammalarsi di cancro alla mammella.

Tumore del colon-retto

Il tumore è dovuto alla proliferazione incontrollata delle cellule della mucosa che riveste l’ultima parte dell’intestino.

Sono stimate circa 53.000 nuove diagnosi di tumore del colon-retto nel 2017. Sia tra gli uomini (15% di tutti i nuovi tumori) sia tra le donne (13%) si trova al secondo posto, preceduto rispettivamente dalla prostata e dalla mammella.

Nel 2014 sono stati osservati 18.671 decessi per carcinoma del colon-retto (ISTAT),di cui il 54% negli uomini. La sopravvivenza a 5 anni in Italia è pari al 66% per il colon e al 62% per il retto, omogenea tra uomini e donne. Le Regioni meridionali presentano valori inferiori di circa il 5-8% rispetto al Centro-Nord.

La sopravvivenza dopo 10 anni dalla diagnosi risulta leggermente inferiore rispetto a quella a 5 anni, con valori pari al 64% per il colon e al 58% per il retto, omogenea tra uomini e donne.

 

Segni e sintomi

Il rischio di ammalarsi di cancro del colon-retto aumenta con l’età. Nella popolazione generale questo incremento di rischio viene convenzionalmente individuato a partire dai 50 anni di età in su.  A partire da questa età infatti vengono generalmente raccomandate le strategie di prevenzione (ricerca del sangue occulte nelle feci, rettosigmoidoscopia, colonscopia).

Nelle sue fasi iniziali il tumore del colon-retto è asintomatico o oligosintomatico. I principali sintomi d’allarme sono:

  • presenza di sangue nelle feci
  • modificazione persistente delle evacuazioni intestinali.

Nelle fasi più avanzate la malattia può presentarsi con il quadro dell’occlusione o della subocclusione intestinale:

  • gonfiore e distensione addominale improvvisi e ingravescenti
  • assenza di movimenti intestinali con drammatica riduzione fino all’ interruzione delle evacuazioni
  • dolore addominale

I principali sintomi tardivi sono: anemia e perdita di peso.

 

Cause

Nella maggior parte dei casi il cancro del colon-retto si sviluppa dalla trasformazione di polipi (adenomi), cioè piccole escrescenze benigne, dovute alla proliferazione delle cellule della mucosa dell’intestino.

Il percorso che da una cellula normale del rivestimento mucoso dell’intestino, attraverso la formazione di polipi, porta alla formazione del cancro, è dovuto all’accumularsi di modificazioni sequenziali di una serie di geni presenti nelle cellule (mutazioni) che determina la progressione della malattia.
Di seguito i principali fattori di rischio per il cancro del colon-retto.

 

Storia familiare

Il cancro al colon si sviluppa più frequentemente nelle persone che abbiano familiari che siano già stati colpiti dalla malattia. Circa il 20% delle persone che sviluppano il tumore ha un parente di primo o secondo grado affetto dalla malattia.

Alimentazione

Numerosi studi scientifici suggeriscono che una dieta ricca di grassi animali e povera di fibre può aumentare il rischio di sviluppare questo tumore. Al contrario, una dieta ricca di fibre e con un basso contenuto di grassi saturi riduce il rischio.

Fumo

I fumatori hanno un rischio del 25% più alto di sviluppare il cancro del colon.

Alcol

Anche piccole quantità di alcol innalzano il rischio di cancro del colon. Si stima che ogni incremento di due unità alcoliche nel consumo medio giornaliero di alcol, produca un aumento del rischio di cancro del colon-retto dell’8%.

Obesità

Anche l’obesità aumenta il rischio di cancro del colon. I maschi obesi hanno una probabilità del 50% più alta di sviluppare la malattia rispetto alle persone normopeso. Nei casi di obesità grave, il rischio si alza ulteriormente. Più contenuto invece l’aumento del rischio per le donne obese.

Sedentarietà

Le persone fisicamente inattive hanno un alto rischio di essere colpiti da cancro dell’intestino.

Malattie

Le probabilità di ammalarsi di cancro del colon-retto possono essere aumentate dalla presenza di altre malattie come il Morbo di Crohn o la Rettocolite ulcerosa.

Esistono inoltre condizioni genetiche ereditarie che causano la malattia. Le principali sono: la Poliposi adenomatosa familiare e la Sindrome di Lynch (nota anche come Cancro ereditario non poliposico del colon).
La Poliposi adenomatosa familiare colpisce circa 1 persona ogni 10 mila e dà origine a numerosi polipi nell’intestino. Il rischio che uno o più di essi si trasformi in cancro è certo.
Il Cancro ereditario non poliposico del colon è una forma di cancro causato da mutazioni a carico dei geni del cosiddetto Sistema di riparazione del DNA e si trasmette come carattere autosomico dominante. Circa il 90% degli uomini e il 70% delle donne con queste caratteristiche genetiche sviluppa il cancro prima dei 70 anni.

 

Diagnosi

La diagnosi di cancro del colon-retto parte dall’esame clinico del paziente in cui si effettua la palpazione dell’addome per ricercare eventuali masse tumorali e l’esplorazione rettale. Per quanto quest’ultimo possa apparire un esame banale è infatti in grado di dare una prima indicazione sulla presenza del cancro nell’ultima parte dell’intestino: il retto. Tuttavia se si sospetta un cancro del colon-retto, l’esplorazione rettale è comunque insufficiente.

Per una diagnosi completa si ricorre a esami strumentali più approfonditi, in particolare alla colonscopia o alla rettosigmoidoscopia.

La colonscopia consiste nell’introduzione di una sonda dotata di telecamera dentro l’ano. Lo strumento, riprende il percorso che dall’ano porta al termine dell’intestino crasso, inviandolo a un monitor.

Non molto diversa è la rettosigmoidoscopia che si differenzia alla colonscopia per la lunghezza del tratto indagato (osserva solo la prima parte dell’intestino).

In caso di positività possono essere eseguiti altri test che valutino l’estensione del tumore (quello che viene definito stadio) e la sua aggressività (il grado):

  • Tac
  • Ecografia
  • Raggi X
  • Risonanza magnetica
  • Ecoendoscopia
  • PET (Tomografia ad Emissione di Positroni)
  • esami del sangue per i cosiddetti markers tumorali (sostanze connesse alla presenza del tumore)

 

Terapia

La terapia del cancro del colon-retto comprende diverse tipologie di interventi a seconda dello stadio e del grado del tumore.

Chirurgia

La chirurgia è in genere il principale trattamento, ma molto spesso da sola non è sufficiente. In circa un caso su cinque, invece, il tumore è in uno stadio troppo avanzato per essere rimosso con la chirurgia.
Il grado di aggressività dell’intervento chirurgico dipende dalle dimensioni del tumore e dalla sua eventuale estensione ad altri tessuti. Se il tumore è in uno stadio molto precoce è possibile rimuovere soltanto una piccola parte della parete dell’intestino. Più spesso è necessario rimuovere una sezione di colon (e in alcuni casi anche i linfonodi).

In genere è possibile ricongiungere i due lembi dell’intestino e quindi recuperare pienamente la funzionalità intestinale, ma non sempre è possibile. In questi casi è necessario ricorrere a una stomìa, vale a dire la creazione sull’addome di un nuova uscita per le feci (un ano artificiale). La stomìa può essere temporanea o permanente.

Radioterapia

Esistono due modalità di impiego della radioterapia per trattare il cancro del colon. Può essere somministrata:

  • prima della chirurgia per ridurre l’estensione della massa tumorale
  • per controllare i sintomi e rallentare la progressione del tumore nei casi di tumori in stadio avanzato non operabili.

La radioterapia può essere effettuata dall’esterno, tramite un’apposita macchina che rilascia onde sull’intestino per uccidere le cellule tumorali, o dall’interno (brachiterapia) attraverso un “tubo” radioattivo inserito nell’ano e posto vicino al tumore.

Chemioterapia

La chemioterapia consiste in un cocktail di farmaci in grado di uccidere le cellule tumorali. Ci sono tre modi per usare la chemioterapia per trattare il cancro del colon. Può essere somministrata:

  • prima della chirurgia insieme alla radioterapia per ridurre l’estensione del tumore
  • dopo la chirurgia per prevenire la ricomparsa del cancro (recidive)
  • per alleviare i sintomi e rallentare la progressione, nel caso di cancro avanzato.

Farmaci Biologici

I farmaci biologici sono medicinali di recente immissione sul mercato in grado di interagire con componenti vitali delle cellule tumorali (per esempio alcune proteine che si trovano sulla loro superficie) e, nel caso del cancro del colon-retto, di impedire la crescita del tumore. I farmaci biologici attualmente disponibili contro il cancro del colon-retto colpiscono due proteine: il recettore del fattore di crescita dell’epidermide (EGFR) o il fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF).

Le terapie biologiche non possono essere impiegate in tutti i pazienti, ma soltanto in quelli con precise caratteristiche genetiche o in particolari stadi della malattia.

 

Prevenzione

Esistono molti cambiamenti negli stili di vita efficaci per ridurre il rischio di sviluppare il cancro del colon.

Dieta

Una dieta a basso contenuto di grassi e ad alto apporto di fibre che includa frutta e verdura può ridurre il rischio di cancro al colon, oltre che altre tipologie di tumori e le malattie cardiovascolari.

Attività fisica

Il rischio di cancro al colon-retto può essere ridotto di un quinto facendo ogni giorno un’ora di attività fisica intensa o due ore di esercizio moderato.

Peso corporeo

Cercare di mantenere il peso forma è essenziale, poiché il rischio di sviluppare il cancro del colon-retto è aumentato dall’obesità.

Fumo

È dimostrato che il fumo è uno dei fattori di rischio per sviluppare anche questa forma tumorale. Smettere di fumare è quindi una strategia efficace.

Alcol

Limitare il consumo di alcol alle porzioni consigliate:

  • 2-3 unità alcoliche al giorno per gli uomini
  • 1-2 unità alcoliche al giorno per le donne
  • 1 unità alcolica al giorno per le persone con più di 65 anni
  • zero unità di alcol sotto i 16 anni.

Screening

Lo screening di popolazione del cancro colo-rettale è un programma di prevenzione organizzata, proposto dal Servizio Sanitario Nazionale, che offre ai cittadini tra i 50 e i 69 anni di età dei test di primo livello (ricerca del sangue occulto fecale, rettosigmoidoscopia) e di secondo livello (colonscopia) con cui è possibile intercettare la malattia in fasi precoci, quindi potenzialmente curabili, o di individuare i precursori del cancro (come i polipi), la cui rimozione per via endoscopica consente di prevenire la malattia.

Ipertensione arteriosa

La pressione arteriosa è la forza esercitata dal sangue contro la parete delle arterie. A ogni battito del cuore, il sangue esce dal ventricolo sinistro attraverso la valvola aortica, passa nell’aorta, e si diffonde a tutte le arterie.  Quando il cuore si contrae e il sangue passa nelle arterie, si registra la pressione arteriosa più alta, detta ‘sistolica’ o ‘massima’; tra un battito e l’altro  il cuore si riempie di sangue e all’interno delle arterie si registra la pressione arteriosa più bassa, detta ‘diastolica’ o ‘minima’. La misurazione della pressione si registra a livello periferico, usualmente al braccio  e  viene  indicata da due numeri che indicano la pressione arteriosa sistolica e la diastolica, misurate in millimetri di mercurio (es. 120/80 mmHg).

Quando i valori di sistolica e/o di diastolica superano i 140 (per la massima) o i 90 (per la minima), si parla di ipertensione.

A soffrire di ipertensione si stima che siano circa 15 milioni di italiani, ma circa la metà di questi ne è consapevole. Controllare regolarmente la pressione arteriosa e mantenerla a livelli raccomandati attraverso  l’adozione di  uno stile di vita sano  e assumendo specifiche  terapie laddove necessario, è fondamentale, poiché questa condizione rappresenta il fattore di rischio più importante per l’ictus, quindi per  le malattie legate all’invecchiamento (disturbi della memoria, disabilità), nonché per l’infarto del miocardio, gli aneurismi, le arteriopatie periferiche, l’insufficienza renale cronica, la retinopatia..

Secondo la classificazione del JNC 7 (Joint National Committee on Prevention, Detection, Evaluation and Treatment of High Blood Pressure) si considera ‘normale’ una pressione sistolica inferiore a 120 mmHg e una pressione diastolica inferiore a 80 mmHg. Al di sopra dei 140 mmHg di massima o dei 90 mmHg di minima si è ipertesi. Si parla di ipertensione ‘sistolica isolata’ quando è solo la massima ad essere alta (cioè 140 mmHg).

Classificazione dell’ipertensione arteriosa secondo il JNC 7

Pressione sistolica (in mmHg) Pressione diastolica (in mmHg)
Normale 90-119 60-79
Pre-ipertensione 120-139 80-89
Ipertensione stadio 1 140-159 90-99
Ipertensione stadio 2 ≥ 160 ≥ 100
Ipertensione sistolica isolata ≥ 140 ≤ 90

 

Cause

Il valore della pressione arteriosa dipende in massima parte dalla adozione degli stili di vita fin dalla giovane età: mangiare con poco sale, molta frutta e verdura, camminare e non fumare mantengono la pressione arteriosa a livelli favorevoli nel corso della vita.Nel 90-95% dei casi l’ipertensione arteriosa non ha una causa evidente; questa forma viene dunque indicata come ‘ipertensione essenziale’.

In una minoranza dei casi invece (5-10%) l’ipertensione è causata da un’altra condizione medica, in genere una malattia del sistema endocrino (feocromocitoma, sindrome di Cushing, iperparatiroidismo, adenoma surrenalico aldosterone secernente, alterazioni della tiroide) o dei reni (insufficienza renale cronica, restringimento di un’arteria renale) o ancora può essere secondaria all’assunzione di farmaci (associazioni estro-progestiniche, farmaci antidolorifici o per la cefalea, ecc.). In questi casi si parla di ‘ipertensione secondaria’.

L’ipertensione infine può comparire durante una gravidanza e complicarla (preeclampsia, eclampsia).

 

Sintomi

Nella maggior parte dei casi la pressione arteriosa elevata non dà sintomi; per questo l’ipertensione viene indicata come il ‘killer silenzioso’. In genere viene scoperta in occasione di un controllo dal medico o in farmacia.

In caso di rialzo importante dei valori pressori (crisi ipertensiva, valori > 180/110 mmHg) può comparire una cefalea violenta, nausea, vomito, alterazioni della vista (restringimento del campo visivo, ‘lucine’ scintillanti, ecc), vertigini e ronzii alle orecchie (acufeni) o ancora un’importante epistassi (emorragia dal naso).

Diagnosi

enza aspettare che il killer silenzioso dia segno di sé, è importante misurare la pressione arteriosa, a partire dai 20 anni, regolarmente, soprattutto se si hanno i genitori ipertesi. Per chi non ha la pressione elevata regolarmente significa non più di una volta l’anno. Esistono una serie di apparecchi che consentono di misurare la pressione con facilità, a casa propria,.

Per le persone ipertese i valori pressori rilevati a casa sono molto importanti perché danno informazioni aggiuntive rispetto a quelli misurati nello studio del medico, che possono risultare elevati per una reazione d’allarme (è la cosiddetta ipertensione ‘da camice bianco’). E’ possibile infine misurare i valori pressori per 24 ore, attraverso il cosiddetto Holter pressorio o ABPM (monitoraggio ambulatoriale della pressione arteriosa). Il medico, nel valutare una persona affetta da ipertensione arteriosa, può richiedere alcuni  esami per valutare la presenza di altri fattori di rischio (es. colesterolo elevato, diabete), di possibili cause di ipertensione secondaria o di danno d’organo da ipertensione (ecodoppler arterioso dei vasi del collo, elettrocardiogramma, esami di funzionalità renale, microalbuminuria, ecografia renale, dosaggi ormonali, esame del fondo dell’occhio, ecc).

Come si misura la pressione arteriosa

L’apparecchio col quale si misura la pressione è lo sfigmomanometro. Per misurare bene la pressione, è necessario mettersi seduti comodamente, in un ambiente tranquillo con  l’avambraccio ben appoggiato (ad esempio su un tavolo) e il braccio all’altezza del cuore; prima dell’applicazione del bracciale è necessario rimuovere tutti gli indumenti che costringono il braccio; si posiziona il manicotto dello sfigmomanometro intorno al braccio, al di sopra della piega del gomito, facendo attenzione a renderlo ben aderente al braccio ma né troppo stretto, né troppo lento (in caso di obesità bisognerà utilizzare gli appositi bracciali per obesi, più alti e più larghi di quelli standard). Utilizzando lo sfigmomanometro a mercurio o l’anaeroide è necessario gonfiare il manicotto fino a 30 mmHg sopra la scomparsa del polso; posizionare il fonendoscopio sulla arteria brachiale (parte interna del braccio, non posizionare il fonendoscopio sotto il manicotto) e sgonfiare lentamente il manicotto: il primo tono udibile corrisponde alla pressione arteriosa sistolica, l’ultimo tono udibile alla pressione arteriosa diastolica. Eseguire due misurazioni a distanza di qualche minuto; il valore medio fra le due misurazioni viene considerato il valore della persona.

Utilizzando il misuratore elettronico basta  azionare  il bottone per il gonfiaggio automatico del bracciale; gli apparecchi automatici offriranno la lettura completa della pressione arteriosa sistolica, della diastolica e delle pulsazioni cardiache.

La pressione arteriosa può essere rilevata indifferentemente al braccio destro o sinistro; a volte però possono esserci differenze tra un braccio e l’altro; in questo caso bisogna misurare la pressione dal braccio dove risulta più elevata.

In generale è consigliabile misurare la pressione la mattina al risveglio e la sera.

 

Terapia

Scopo del trattamento dell’ipertensione arteriosa non è solo quello di abbassare i valori pressori, per riportarli nei limiti della norma (cioè al di sotto di 140/90 mmHg), ma anche di proteggere gli organi bersaglio dell’ipertensione e di tentare di correggere un eventuale danno d’organo (ad esempio l’ipertrofia ventricolare sinistra).

Ridurre la pressione arteriosa di appena 5 mmHg, consente di abbattere il rischio di ictus del 34%, quello di infarto del 21% e permette di ridurre il rischio di sviluppare demenza vascolare, scompenso cardiaco, fibrillazione atriale e di morire per cause cardio-vascolari.
Sarà cura del medico scegliere la terapia farmacologica più idonea per il paziente, sulla base dei fattori di rischio o della presenza del danno d’organo. Per la terapia farmacologica sono disponibili diverse classi di farmaci:

  • Diuretici
  • Beta bloccanti
  • Calcio-antagonisti
  • ACE-inibitori/sartani/inibitori diretti della renina
  • Alfa-bloccanti
  • Clonidina

Può capitare che nonostante un trattamento farmacologico ottimale della pressione arteriosa e avendo naturalmente escluso cause di ipertensione secondaria, non si riesca di riportare nella norma i valori pressori; in questo caso si parla di “ipertensione resistente”.

L’adozione di uno stile di vita sano è comunque efficace sia come prevenzione che associato ad una terapia farmacologica; deve però essere protratto nel tempo.

 

Prevenzione

L’ipertensione arteriosa può essere prevenuta adottando un corretto stile di vita. E’ importante:

  • Seguire un’ alimentazione sana, ricca di fibre (frutta e verdure) e pesce, povera di grassi saturi (quelli di origine animale, carni rosse, salumi, insaccati, formaggi) e con il giusto contenuto di calorie La verdura e la frutta sono molto importanti perché oltre ad essere ricchi di fibre, sono molto  ricche di potassio: una alimentazione del genere tipica dell’area mediterranea dei primi anni ’60 aiuta ad abbassare la pressione di circa 8-14 mmHg
  • Ridurre gradualmente la quantità di sale aggiunto alle pietanze e i cibi saporiti (dado da cucina, cibi in scatola, carne, tonno, sardine, alici ecc, salse, sottaceti, formaggi, salumi e insaccati) e la quantità di cibo che si mangia. La quantità di sale introdotto nella alimentazione, infatti, dipende sia dal sale aggiunto da noi nella preparazione del cibo, sia dalla quantità di cibo che si mangia.
    La quantità di sale che si consuma nella giornata non dovrebbe superare i 5 grammi al giorno (un cucchiaino da tè). E’ interessante notare che un etto di prosciutto crudo contiene già i 5 grammi di sale raccomandati per l’intera giornata.  E’ importante quindi leggere sempre l’etichetta dei prodotti confezionati che comperiamo, in modo da valutare la quantità di sale: se si mangia un prodotto salato è importante compensare con un altro senza o con basso contenuto di sale. Consumare non più di 5 g di sale al giorno riduce la pressione arteriosa fino a 6-8 mmHg.
  • Limitare il consumo di alcol (non più di 1 bicchiere di vino al giorno per le donne, non più di 2 per gli uomini)
    Con la riduzione dell’alcool la pressione si può ridurre di 2-4 mmHg.
  • Scendere di peso, in caso di sovrappeso/obesità: ogni 10 Kg di peso persi, la pressione arteriosa si riduce di circa 5-10mmHg.
  • Praticare regolarmente attività fisica aerobica (almeno 30 minuti di camminata a passo veloce, bicicletta, nuoto, per almeno 5 volte/settimana): l’aumento dell’attività fisica produce la riduzione di 4-9 mmHg.
  • Smettere di fumare
  • Imparare a gestire lo stress (yoga, tecniche di meditazione e di rilassamento, pilates ecc.)

Tutti gli stili di vita sopra menzionati sono efficaci solo se si protraggono per almeno 6 mesi; Uno stile di vita sano deve comunque essere sempre adottato, anche quando il medico decide di iniziare la terapia farmacologica specifica.

Obesità

L’obesità è una condizione caratterizzata da un eccessivo accumulo di grasso corporeo, condizione che determina gravi danni alla salute. E’ causata nella maggior parte dei casi da stili di vita scorretti: da una parte, un’alimentazione scorretta ipercalorica e dall’altra un ridotto dispendio energetico a causa di inattività fisica. L’obesità è quindi una condizione ampiamente prevenibile.

L’obesità rappresenta uno dei principali problemi di salute pubblica a livello mondiale sia perché la sua prevalenza è in costante e preoccupante aumento non solo nei Paesi occidentali ma anche in quelli a basso-medio reddito sia perché è un importante fattore di rischio per varie malattie croniche, quali diabete mellito di tipo 2, malattie cardiovascolari e tumori.

Si stima che il 44% dei casi di diabete tipo 2, il 23% dei casi di cardiopatia ischemica e fino al 41% di alcuni tumori sono attribuibili all’obesità/sovrappeso. In totale, sovrappeso e obesità rappresentano il quinto più importante fattore di rischio per mortalità globale e i decessi attribuibili all’obesità sono almeno 2,8 milioni/anno nel mondo.

L’indice di massa corporea IMC (body mass index BMI) è l’indice per definire le condizioni di sovrappeso-obesità più ampiamente utilizzato, anche se dà un’informazione incompleta (ad es. non dà informazioni sulla distribuzione del grasso nell’organismo e non distingue tra massa grassa e massa magra); l’IMC è il valore numerico che si ottiene dividendo il peso (espresso in Kg) per il quadrato dell’altezza (espressa in metri).

Le definizioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) sono:

  • sovrappeso = IMC da uguale o superiore a 25 fino a 29,99
  • obesità = IMC uguale o superiore a 30.

 

Cause

L’obesità e il sovrappeso sono causati nella maggior parte die casi da uno squilibrio tra apporto e consumo energetico.

Oggi si consumano cibi più ricchi di calorie (per lo più da zuccheri e grassi) rispetto al passato e ci si muove sempre meno, per le tante ore trascorse seduti al lavoro o a scuola, per la mancanza di spazi dove fare attività fisica soprattutto nelle grandi città, per un aumento del tempo trascorso davanti alla televisione, al computer, ai giochi elettronici.

Per recarsi a scuola o al lavoro o anche per fare shopping si usano ormai soli mezzi di trasporto privati e ci si muove sempre di meno a piedi. Il valore energetico del cibo si misura in Kilocalorie (Kcal). Il fabbisogno medio di kilocalorie giornaliere per una persona attiva è intorno alle 2.000.

Più raramente l’obesità è causata da condizioni genetiche (es. sindrome di Prader Willi) o da malattie endocrine quali la sindrome di Cushing (una condizione che determina un’aumentata produzione di cortisolo da parte delle ghiandole surrenali) o un cattivo funzionamento della tiroide (ipotiroidismo). Un’altra condizione che può associarsi ad obesità è la sindrome dell’ovario policistico.

Alcuni farmaci (antidepressivi, antipsicotici, cortisonici, pillola anticontraccettiva) possono indurre un aumento di peso.

Quando si smette di fumare, si può avere un modesto aumento di peso (in particolare a livello addominale) come effetto collaterale temporaneo.

 

Sintomi e segni

Avere molti chili di troppo comporta una serie di conseguenze a breve e a medio- lungo termine.

Le persone obese nella vita di tutti i giorni presentano affanno, anche compiendo attività fisica di bassa intensità, sudano profusamente, hanno disturbi del sonno e russano (questa condizione è chiamata sindrome delle apnee notturne, che comporta una scarsa ossigenazione del sangue anche per lunghi periodi durante il sonno notturno e aumenta il rischio di ipertensione e malattie cardiovascolari, quali ictus e infarto), hanno sonnolenza diurna e problemi alle articolazioni (dolori alla schiena, alle ginocchia e alle anche).

Inoltre frequentemente i soggetti obesi autolimitano la loro vita sociale, hanno problemi della sfera psicologica, quali bassa autostima, che possono sfociare nella depressione.

A lungo termine l’obesità comporta un aumentato rischio di sviluppare ipertensione arteriosa, e quindi accidenti cardio-vascolari,  diabete di tipo 2 e  tumori.

 

Diagnosi

La valutazione della quantità e della distribuzione del grasso corporeo può essere effettuata in diversi modi.

L’indice di massa corporea (IMC o BMI) permette di fare diagnosi di sovrappeso e obesità, ma non dà informazioni sulla distribuzione, né sull’esatta quantità del grasso corporeo (un culturista può avere un IMC molto elevato pur non essendo obeso; un anziano con scarsa massa muscolare può avere un eccesso di grasso corporeo pur presentando un IMC nel range di normalità).

L’Indice di Massa Corporea (IMC, kg/m2) si calcola: dividendo il peso, espresso in kg per il quadrato dell’altezza, espressa in metri, come indice indiretto di adiposità.

A seconda dell’MC si definiscono le seguenti categorie:

  • IMC < 16 : grave magrezza
  • IMC tra 16 a 18,49 : sottopeso
  • IMC tra 18,5 e 24,99 : normopeso
  • IMC tra 25 e 29,99 : sovrappeso
  • IMC tra 30 e 34,99 : obesità classe 1
  • IMC tra 35 e 39,99 : obesità classe 2
  • IMC > 40 : obesità classe 3

Un altro metodo per diagnosticare il sovrappeso e l’obesità, è misurare la circonferenza del punto vita. Una circonferenza superiore a 94 cm negli uomini e a 80 cm nelle donne è considerata patologica.

Inoltre, la distribuzione del grasso può essere valutata con la plicometria cutanea (la misurazione dello spessore delle pieghe cutanee in diversi distretti corporei), con il rapporto tra la circonferenza della vita e dei fianchi o con tecniche strumentali avanzate quali l’ecografia, la TAC o la risonanza magnetica che possono valutare anche la quantità del grasso ‘nascosto’ all’interno dell’addome, cioè del grasso ‘viscerale’, che è il più pericoloso dal punto di vista metabolico e del rischio cardiovascolare.

La valutazione iniziale del paziente obeso deve comprendere anche la determinazione del livello plasmatico di alcuni ormoni (come quelli della tiroide e del surrene), l’assetto lipidico (colesterolo e trigliceridi), la misurazione della pressione arteriosa.

 

Terapia

Il trattamento dell’obesità consiste nella riduzione del peso corporeo, da effettuarsi sotto stretto controllo medico, seguendo un’alimentazione corretta ed effettuando un regolare programma di attività fisica, adeguato alle proprie possibilità e nel successivo mantenimento di un peso adeguato alla propria altezza. Può essere d’aiuto in alcuni casi, ricorrere ad un supporto psicologico.

La dieta per la riduzione del peso deve essere personalizzata; in linea generale deve comprendere frutta e verdura; cereali (pane e pasta) con moderazione e preferibilmente integrali, privilegiare carne e pesce, come principali fonti di proteine.

Andranno invece evitati sale e zucchero aggiunti a cibi e bevande, i cibi troppo ricchi di sale (es. insaccati) e di grassi e zuccheri (merendine, patatine fritte, cibi dei fast food e di rosticceria/pizzerie ecc), i soft drink e le bevande alcoliche. Si ricorda che un bicchiere di vino contiene 120 Kcal, senza apportare nessuna sostanza nutritiva.

Molto importante, quando si acquistano cibi confezionati, è leggere l’etichetta nutrizionale per verificare il contenuto calorico e il contenuto qualitativo e quantitativo in grassi (evitare i prodotti ricchi in acidi grassi saturi, soprattutto trans).

L’attività fisica va iniziata in maniera graduale (soprattutto per i più sedentari), cominciando con 10-15 minuti di attività aerobica (camminata a passo veloce, nuoto, tennis, tapis roulant, ballo, ecc) e aumentando gradualmente, fino a raggiungere almeno i 30 minuti al giorno, 5 giorni a settimana. Qualche piccolo accorgimento può contribuire a mantenere un livello adeguato di attività fisica: non prendere mai l’ascensore, ma fare le scale, andare a fare la spesa alimentare a piedi se non si devono portare buste pesanti, evitare di usare l’autovettura per coprite brevi distanze.

Nei pazienti con forme di obesità grave (IMC > 40) o in quelli con IMC > 35 e altre condizioni mediche associate (ad es. la sindrome delle apnee da sonno, diabete, ipertensione arteriosa) che possono trarre beneficio da un’importante perdita di peso, un’alternativa di trattamento è rappresentata dalla chirurgia bariatrica (chirurgia dell’obesità).

Gli interventi chirurgici per l’obesità possono essere classificati in:

  • restrittivi – riducono le dimensioni dello stomaco e rallentano i processi digestivi
  • restrittivi-malassorbitivi – riducono le dimensioni dello stomaco e scavalcano o eliminano una parte del tratto digerente per ridurre l’assorbimento del cibo.

Molti di questi interventi vengono ormai effettuati per via laparoscopica (cioè praticando delle mini-incisioni sull’addome, attraverso le quali vengono inserite le strumentazioni chirurgiche e una mini-telecamera).

Nonostante i grandi progressi di questa branca della chirurgia, soprattutto nel caso degli interventi più complessi, il tasso di mortalità rimane dell’ordine dello 0,5-2% e non mancano le complicanze a breve e lungo termine, per cui sono da destinare a casi molto selezionati.

 

Prevenzione

Si può fare molto per prevenire sovrappeso e obesità.

Ecco alcune indicazioni:

  • limitare il consumo di grassi e zuccheri, molto abbondanti soprattutto nei cibi confezionati e nei soft drink
  • aumentare il consumo di verdure, legumi, cereali integrali e, in generale cibi freschi, non processati
  • seguire una dieta variata, riducendo le porzioni, nel caso in cui si voglia perdere peso
  • limitare l’alcol, che oltre ad essere nocivo alla salute degli organi, è anche un’importante fonte di calorie, senza apportare nessun vantaggio nutrizionale
  • non ricorrere al cibo come genere di conforto, nel caso in cui ci si senta depressi o giù di corda
  • dare ai bambini un buon esempio in materia di alimentazione; i figli di genitori obesi tendono a loro volta ad avere problemi di peso
  • fare una regolare attività fisica: gli adulti dovrebbero fare almeno 30 minuti/giorno per 5 volte/settimana di attività fisica aerobica di intensità moderata (camminare a passo veloce, andare in bicicletta, nuotare, ballare); i bambini almeno 60 minuti/giorno; nel caso in cui si desideri perdere peso, il livello di attività fisica dovrà essere gradualmente incrementato.

Papillomavirus (HPV)

L’infezione da papillomavirus (HPV – Human Papilloma Virus) è in assoluto la più frequente infezione sessualmente trasmessa; l’assenza di sintomi ne favorisce la diffusione poiché la maggior parte degli individui affetti non è a conoscenza del processo infettivo in corso. L’infezione da HPV è più frequente nella popolazione femminile.

Esistono circa 100 tipi di papillomavirus differenziati in base al genoma. Alcuni sono responsabili di lesioni benigne come i condilomi (specie tipo 6 e 11), altri sono in grado di produrre lesioni pre-invasive (displasie) ed invasive, cioè il tumore della cervice uterina (specie tipo 16 e 18).

Generalmente il tempo che intercorre tra l’infezione e l’insorgenza delle lesioni precancerose è di circa 5 anni, mentre la latenza per l’insorgenza del carcinoma cervicale può essere di decenni.

Il tumore della cervice uterina (collo dell’utero) è stata la prima neoplasia ad essere riconosciuta dall’Organizzazione mondiale della sanità come totalmente riconducibile ad una infezione: essa è infatti causata nel 95% dei casi da una infezione genitale da HPV.

In Italia vengono diagnosticati ogni anno circa 3.500 nuovi casi di carcinoma della cervice uterina e oltre 1.500 donne muoiono a causa di questo tumore.

Per questo è importante mettere in atto misure preventive, basate su programmi di screening, che consentano di identificare le lesioni precancerose e di intervenire prima che evolvano in carcinoma.

 

La Vaccinazione

La vaccinazione contro il Papillomavirus umano (HPV) si è dimostrata molto efficace nel prevenire nelle donne il carcinoma della cervice uterina (collo dell’utero), soprattutto se effettuata prima dell’inizio dell’attività sessuale; questo perché induce una protezione maggiore prima di un eventuale contagio con il virus HPV.

Il carcinoma della cervice uterina è il secondo tumore più diffuso nelle donne.

Negli ultimi venti anni la mortalità per questo tumore si è ridotta drasticamente, soprattutto grazie alla diagnosi precoce realizzata attraverso i programmi di screening (Pap-test).

A fianco dello screening, la vaccinazione anti HPV può efficacemente contribuire a ridurre l’impatto del cancro del collo dell’utero, che rappresenta la prima forma tumorale riconosciuta come totalmente riconducibile a un’infezione: quella da Papillomavirus umano.

 

Dall’infezione al cancro

Il Papillomavirus umano è un virus molto comune, tanto che, secondo una stima, il 75% degli individui viene infettato nel corso della vita. Si trasmette soprattutto attraverso i rapporti sessuali, ma per contrarre l’infezione può bastare un semplice contatto nell’area genitale.

In natura ne esistono oltre 120 tipi diversi, in grado di aggredire la parete del collo dell’utero e produrre differenti tipi di alterazioni: alcuni sono responsabili di lesioni benigne (ad esempio i condilomi), altri producono, invece, lesioni in grado di evolvere in cancro.

Circa il 70% di tutte le lesioni pretumorali sono attribuibili a due tipi di papillomavirus (il 16 e il 18), mentre quasi il 90% dei condilomi è causato dai tipi 6 e 11.

Non tutte le infezioni da HPV producono lesioni che poi possono evolvere in cancro. Anzi, la maggior parte di esse (circa l’80%) è temporanea e regredisce spontaneamente. Soltanto quelle che diventano croniche (una minoranza) possono trasformarsi nell’arco di 7-15 anni in una lesione tumorale.

 

Perché vaccinarsi

Il fatto che il cancro del collo dell’utero sia di origine infettiva consente di adottare contro questa malattia una strategia sconosciuta per le altre forme di tumore. Attraverso la vaccinazione contro l’HPV è infatti possibile interrompere all’origine la catena che dall’infezione porta al cancro. Se grazie al vaccino l’organismo è in grado di contrastare l’infezione da Papillomavirus, allora non si potranno verificare i cambiamenti delle cellule del collo dell’utero, che portano allo sviluppo del tumore.

 

I vaccini contro il Papillomavirus

Oggi sono disponibili due vaccini contro il papillomavirus:

  1. vaccino bivalente – protegge contro i tipi 16 e 18 (i tipi di virus in grado di causare le lesioni pretumorali)
  2. vaccino quadrivalente – offre una protezione anche contro i tipi 6 e 11 (quelli che causano il maggior numero di condilomi).

Entrambi i vaccini hanno un’efficacia elevata, se somministrati prima che la persona sia stata contagiata con il virus HPV, che si acquisisce, di norma, subito dopo l’inizio dell’attività sessuale.
Inoltre inducono una migliore risposta immunitaria nelle persone più giovani.

Diabete mellito di tipo 2

Il diabete mellito di tipo 2 è una malattia cronica caratterizzata da elevati livelli di glucosio nel sangue e dovuta a un’alterazione della quantità o del funzionamento dell’insulina

L’insulina è un ormone, prodotto dalle cellule del pancreas, che provoca l’ingresso del glucosio (zucchero) circolante all’interno delle cellule, dove viene utilizzato come fonte di energia.

Se il pancreas non produce una quantità sufficiente di insulina o se gli organi bersaglio (muscolo, fegato, tessuto adiposo) non rispondono in maniera adeguata all’ormone, il corpo non può utilizzare il glucosio circolante come fonte di energia e il glucosio resta nel sangue, dove i suoi livelli diventano sempre più alti (iperglicemia) causando danni a vari organi.

La maggior parte delle persone con diabete mellito di tipo 2 (DMT2), al momento della diagnosi, presenta entrambi questi difetti:

  • insufficiente produzione di insulina da parte del pancreas (deficit parziale di insulina),
  • inadeguata risposta all’insulina (insulino-resistenza).

Il DMT2 rappresenta circa il 90% di tutti i casi di diabete; si presenta in genere in età adulta (circa i 2/3 dei casi di diabete interessano persone di oltre 64 anni), anche se negli ultimi anni, un numero crescente di casi viene diagnosticato in età adolescenziale, fatto questo correlabile all’aumento dei casi di obesità infantile.
Gli italiani affetti da DMT2 sono circa il 5% della popolazione, cioè oltre 3 milioni di persone. Si stima, tuttavia, che a questo numero possa aggiungersi circa 1 milione di persone che hanno la malattia ma ancora non lo sanno.

Un aspetto particolare, nella donna, è rappresentato dal cosiddetto diabete gestazionale, diagnosticato durante la gravidanza, che, in genere, regredisce dopo il parto ma può ripresentarsi a distanza di anni come il DMT2. Se non controllato, il diabete gestazionale aumenta il rischio di complicazioni in gravidanza e al parto e/o di malformazioni fetali. Secondo i dati di prevalenza nazionali ed europei, circa il 6-7% di tutte le gravidanze è complicato da diabete (ogni anno in Italia >40.000 gravidanze).

Infine, l’aumento di incidenza di DMT2 nelle donne in età fertile e l’immigrazione da Paesi a elevata frequenza di DMT2 porteranno, nei prossimi anni, a un aumento delle gravidanze in donne diabetiche.

 

Cause

La maggior parte dei casi di DMT2 è associata agli stili di vita scorretti e all’obesità che, spesso, lo precede e ne è la causa scatenante.

Una serie di geni possono favorire la comparsa di DMT2. Per questo le persone con DMT2 hanno spesso parenti prossimi (genitori, fratelli) affetti dalla stessa malattia.

Altre condizioni che aumentano il rischio di sviluppare il diabete sono:

  • dieta a elevato contenuto di zuccheri semplici (dolci, caramelle etc.)
  • dieta a elevato contenuto di grassi di origine animale (carni rosse o insaccati, formaggi grassi)
  • sedentarietà
  • diabete gestazionale
  • eccessivo consumo di alcol
  • età (il DMT2 compare in genere dopo i 40 anni e interessa per lo più persone al di sopra dei 64 anni)
  • etnia (sono a maggior rischio di DMT2 le popolazioni dell’Africa sub-sahariana e del Medio Oriente-Nord Africa).

 

Sintomi e segni

sintomi del DMT2 sono meno evidenti rispetto al diabete mellito di tipo 1 (DMT1). La malattia rimane, infatti, per molto tempo asintomatica e i sintomi si sviluppano in modo graduale e sono, quindi, più difficili da identificare.

Possiamo riscontrare:

  • sete intensa e frequente bisogno di urinare
  • perdita di zuccheri nelle urine (glicosuria)
  • aumento dell’appetito
  • senso di affaticamento e vista sfocata
  • aumento delle infezioni dei genitali e delle vie urinarie (cistiti, ecc.)
  • taglietti o piccole ferite che guariscono più lentamente
  • nei casi più manifesti, disfunzione erettile nei maschi e secchezza vaginale nelle donne.

 

Diagnosi

La diagnosi di DMT2 si fa attraverso gli esami del sangue e delle urine.

I test principali sono:

  • glicemia al mattino dopo almeno 8 ore di digiuno (valori uguali o superiori a 126 mg/dl sono considerati indicativi di diabete)
  • glicosuria (presenza di zucchero nelle urine)
  • emoglobina glicosilata (HbA1c – dà una valutazione media della glicemia degli ultimi 2-3 mesi e, se superiore a 6,5%, può indicare la presenza di diabete)
  • test da carico orale di glucosio (dopo la valutazione della glicemia, viene fatta bere una bevanda contenente 75 grammi di glucosio e, a distanza di 2 ore, una glicemia uguale o superiore a 200 mg/dl indica la presenza di diabete)
  • valori di glicemia uguali o superiori a 200 mg/dl riscontrati nell’arco della giornata devono far sospettare la diagnosi di diabete.

 

Monitoraggio

l monitoraggio del DMT2, finalizzato a mantenere la glicemia (livello di zucchero nel sangue) costante nel tempo e, quindi, a prevenire le complicanze, deve avvenire secondo le indicazioni del medico diabetologo, che dipendono dalla gravità della malattia.

  • Eseguire l’autocontrollo della glicemia periodicamente, utilizzando un piccolo apparecchio (reflettometro) che legge il valore della glicemia da una striscia reattiva su cui si pone una goccia di sangue prelevata da un dito della mano. Sono, inoltre, disponibili, per il monitoraggio continuo in caso di grave scompenso glicemico, degli apparecchi muniti di “sensori” che sono in grado di leggere automaticamente i valori di glicemia ogni pochi minuti attraverso un ago sottile, inserito sotto la cute. Sono molto utili anche per evitare di pungersi spesso il dito ma, essendo costosi, è possibile utilizzarli solo in alcune situazioni.
  • Controllare l’igiene del cavo orale dopo ogni pasto (lavare i denti e usare il filo interdentale) ed effettuare controlli periodici dal dentista poiché il diabete aumenta il rischio di infezioni delle gengive.
  • Monitorare periodicamente i livelli di pressione arteriosa e di colesterolo nel sangue, soprattutto negli adulti, per prevenire complicanze cardiovascolari a lungo termine.
  • Effettuare controlli annuali degli organi bersaglio del diabete: fondo oculare per gli occhi, elettrocardiogramma per il cuore, creatinina nel sangue per i reni.
  • Nelle persone che hanno il DMT2 da più di dieci anni, esaminare i piedi tutti i giorni, anche tra le dita, facendo attenzione alla comparsa di vesciche, piccole ferite, arrossamenti.

 

Terapia

La terapia del DMT2 si basa, prima di tutto, sull’assunzione di stili di vita corretti, associati, eventualmente, a una terapia farmacologica.

Gli obiettivi della terapia, finalizzata, soprattutto, a prevenire la comparsa di complicanze o la progressione di quelle a lungo termine, sono:

  • ridurre, per quanto possibile, l’eccesso di peso corporeo. Nell’adulto il corretto Indice di Massa Corporea (IMC o Body Mass Index – BMI) che si ottiene dividendo il peso in chili per il quadrato dell’altezza in metri, dovrebbe essere compreso tra 20 e 25
  • mantenere la glicemia a digiuno e pre-prandiale tra 70 e 130mg/dl
  • mantenere la glicemia post-prandiale al di sotto o uguale a 180mg/dl
  • mantenere l’emoglobina glicata (HbA1c), che fornisce una valutazione media della glicemia degli ultimi 2-3 mesi, a un livello inferiore o uguale a 7,0%.

Considerando che spesso le persone con DMT2 sono in sovrappeso o obese, perché possano essere adeguatamente informate sull’importanza dei corretti stili di vita e sulle modalità per assumerli e mantenerli, un ruolo insostituibile assume l’educazione terapeutica svolta da professionisti formati e rivolta sia al paziente sia ai familiari.

Alimentazione

La dieta di una persona con diabete, non differisce molto dalla dieta sana, consigliata a qualunque persona, anche in perfetta salute. Si tratta, quindi, di una dieta equilibrata, in cui nessun alimento è proibito ma tutti vanno assunti nelle giuste quantità, con i giusti abbinamenti e con la corretta frequenza. Fondamentale è, comunque, la riduzione calorica, unita a un’adeguata attività motoria, per favorire il dimagrimento in caso di sovrappeso e obesità. Altrettanto importante è, comunque, l’educazione terapeutica mirata a correggere le abitudini dietetiche scorrette.

Attività fisica

L’attività fisica è una componente fondamentale nella corretta gestione quotidiana del diabete e, nel caso del DMT2, è fondamentale perché anche la terapia farmacologica possa funzionare bene. I diabetici di tipo 2 possono svolgere attività fisica al pari di tutti gli altri, avendo però l’accortezza di assumere le giuste quantità di zuccheri prima e durante l’esercizio, in modo da non incorrere in episodi di ipoglicemia. Come per l’alimentazione, anche in questo caso è fondamentale l’educazione terapeutica dei paziente e dei loro familiari.

Terapia farmacologica

Quando la correzione degli stili di vita non basta a controllare il livello di zucchero nel sangue, è necessario ricorrere ad una terapia farmacologica che può essere in compresse o con farmaci da somministrare per iniezione sottocutanea. Oggi sono disponibili molti farmaci per ridurre la glicemia e renderla stabile nell’arco della giornata. Tali farmaci devono essere prescritti dal medico, che può valutare la terapia più adatta e che spesso è diversa da persona a persona.

 

Prevenzione

Il DMT2 può essere prevenuto o, comunque, è possibile prevenire o posticipare l’insorgenza delle sue complicanze o ridurne la gravità, mantenendo quanto più possibile stabili nel tempo i valori glicemici. Per fare ciò, è importante che la persona con DMT2, da un lato, sia consapevole della propria condizione e sia in grado di gestirla nella vita quotidiana, dall’altro, segua uno stile di vita sano. A tale scopo, come già sottolineato, è essenziale il ruolo dell’educazione terapeutica, che potenzi le capacità di gestione della malattia da parte sia della persona con diabete sia dei suoi familiari.

Sono poche le regole che occorre seguire per prevenire il diabete e/o le sue complicanze:

  • mantenere il peso forma o, se in sovrappeso, concordare con il medico una dieta adeguata
  • fare una regolare attività fisica
  • assumere la terapia come è stata prescritta dal medico, concordando eventuali variazioni
  • effettuare l’autocontrollo così come è stato prescritto
  • non fumare
  • non bere bevande alcoliche in eccesso.

Ictus

L’ictus si verifica quando un coagulo di sangue blocca un’arteria cerebrale o quando un’arteria del cervello viene danneggiata e si rompe, provocando interruzione dell’apporto di sangue ossigenato nell’area cerebrale

Ictus è un termine latino che significa “colpo” (in inglese stroke). Insorge, infatti, in maniera improvvisa: una persona in pieno benessere può accusare sintomi tipici che possono essere transitori, restare costanti o peggiorare nelle ore successive.

Quando si verifica un’interruzione dell’apporto di sangue ossigenato in un’area del cervello, si determina la morte delle cellule cerebrali di quell’area. Di conseguenza, le funzioni cerebrali controllate da quell’area (che possono riguardare il movimento di un braccio o di una gamba, il linguaggio, la vista, l’udito o altro) vengono perse.

In Italia l’ictus è la terza causa di morte, dopo le malattie ischemiche del cuore e le neoplasie; causa il 10-12% di tutti i decessi per anno e rappresenta la prima causa di invalidità. Ogni anno si verificano in Italia circa 196.000 ictus, di cui il 20% sono recidive.  Il 10-20% delle persone colpite da ictus cerebrale muore entro un mese e un altro 10% entro il primo anno di vita. Solo il 25% dei pazienti sopravvissuti ad un ictus guarisce completamente, il 75% sopravvive con una qualche forma di disabilità, e di questi  la metà è portatore di un deficit così grave da perdere l’autosufficienza.

L’ictus è più frequente dopo i 55 anni, la sua prevalenza raddoppia successivamente ad ogni decade ; il 75% degli ictus si verifica nelle persone con più di 65 anni. La prevalenza di ictus nelle persone di età 65-84 anni è del 6,5% (negli uomini 7,4%, nelle donne 5,9%).

La definizione di ictus comprende:

  • Ictus ischemico: si verifica quando le arterie cerebrali  vengono ostruite dalla graduale formazione di una placca aterosclerotica e/o da un coagulo di sangue, che si forma sopra la placca arteriosclerotica (ictus trombotico) o che proviene dal cuore o da un altro distretto vascolare (ictus trombo-embolico)  . . Circa l’80% di tutti gli ictus è ischemico.
  • Ictus emorragico: si verifica quando un’arteria del cervello si rompe, provocando così un’emorragia  intracerebrale non traumatica (questa forma rappresenta il 13% di tutti gli ictus) o caratterizzata dalla presenza di sangue nello spazio sub-aracnoideo (l’aracnoide è una membrana protettiva del cervello; questa forma rappresenta circa il 3% di tutti gli ictus).  L’ipertensione è quasi sempre la causa di questa forma gravissima di ictus.
  • Attacco ischemico transitorio o TIA, si differenzia dall’ictus ischemico per la minore durata dei sintomi (inferiore alle 24 ore, anche se nella maggior parte dei casi il TIA dura pochi minuti, dai 5 ai 30 minuti). Si stima che il 40% delle persone che presenta un TIA, in futuro andrà incontro ad un ictus vero e proprio.

 

Fattori di rischio

Fattori di rischio per ictus ischemico:

  • Età
  • Sesso maschile
  • Avere un familiare colpito da ictus (genitori, fratelli/sorelle, figli)
  • Storia di un TIA precedente
  • Ipertensione arteriosa
  • Ipercolesterolemia
  • Diabete mellito
  • Fumo di sigaretta
  • Eccessivo consumo di alcol
  • Obesità
  • L’ipertrofia ventricolare sinistra, la malattia renale cronica, la fibrillazione atriale, l’aterosclerosi carotidea e il pregresso infarto, se non trattati in maniera adeguata, sono condizioni che aumentano la probabilità di andare incontro ad un ictus.

 

Fattori di rischio per ictus emorragico

  • Età
  • Ipertensione arteriosa
  • Eccessivo consumo di alcol
  • Fumo di sigaretta

 

Sintomi

È fondamentale riconoscere immediatamente i sintomi dell’ictus per poter intervenire quanto prima possibile; questo consente di salvare vite e di limitare la comparsa di disabilità. I sintomi principali, che si manifestano improvvisamente, sono:

  • paresi facciale, quando un lato del viso non si muove bene come l’altro
  • deficit motorio degli arti superiori, quando uno degli arti superiori non si muove o cade se confrontato con l’altro
  • difficoltà nel linguaggio, quando il paziente strascica le parole o usa parole inappropriate o è incapace di parlare.

L’alterazione anche di uno solo dei tre segni è altamente suggestiva per un ictus. È importante annotare l’orario della comparsa dei primi sintomi perché presso ospedali specializzati, dotati di “stroke unit” è possibile sottoporre il paziente colpito da ictus ischemico ad una terapia trombolitica (cioè che scioglie l’eventuale trombo) entro 3 ore dall’esordio dei sintomi.

Altri segni che possono aiutare nella identificazione dell’ictus sono:

  • improvvisa perdita di forza e di sensibilità a carico di un braccio o di una gamba (specie se dallo stesso lato del corpo) o di una metà del viso
  • improvvisa perdita di vista (o di una parte del campo visivo) a carico di uno o di entrambi gli occhi l’’improvvisa perdita di equilibrio, comparsa di sbandamenti o vertigini
  • improvviso e lancinante mal di testa
  • improvvisa incapacità a parlare (afasia) o la comparsa di un modo di parlare biascicato o con parole incomprensibili
  • improvvisa incapacità di comprendere cosa le altre persone dicono

 

L’acronimo FAST, usato dagli americani, consente di ricordare facilmente alcuni test da fare nel sospetto che una persona sia stata colpita da un ictus(Cincinnati Prehospital Stroke Scale).:

  • F (come Faccia): chiedere ad una persona di sorridere e osservare se un angolo della bocca non si solleva o ‘cade’;
  • A (come Arms: braccia): chiedere alla persona di sollevare entrambe le braccia e osservare se un braccio tende a cadere verso il basso;
  • S (come Speech: linguaggio): chiedere alla persona di ripetere una frase semplice e valutare se il suo modo di parlare risulti strano (parole senza senso) o biascicato;
  • T (come Tempo): se è presente uno qualunque di questi segni, chiamare immediatamente il 118.

 

Diagnosi

La diagnosi di ictus viene fatta in ospedale mediante l’ausilio di:

  • TAC cerebrale (senza mezzo di contrasto): è l’esame indicato il prima possibile, dopo l’arrivo in pronto soccorso (permette di distinguere tra ictus ischemico ed emorragico ed evidenzia eventuali segni di sofferenza ischemica cerebrale precoci). E’ consigliabile ripetere questo esame a distanza di 48 ore.
  • ecodoppler vasi epiaortici: viene effettuato abitualmente durante il ricovero e consente di evidenziare la presenza di aterosclerosi carotidea
  • ecocardiogramma (transtoracico o transesofageo): indicata nello studio di eventuale embolia  cardiaca
  • angiografia cerebrale: viene effettuata nelle prime ore dall’ictus, solo nel caso in cui si decida di trattare il paziente con intervento endovascolare di disostruzione arteriosa.

 

Terapia

Trattamento dell’ictus ischemico in fase acuta

  • Trombolitici: vengono somministrati endovena, entro 3 ore dall’inizio dei sintomi (mai  oltre le 4-5 ore) in ambiente ospedaliero (dopo la TAC). Questi farmaci, aiutano a sciogliere il trombo e a ripristinare il flusso di sangue nell’area interessata; prima si interviene e più cellule cerebrali si salvano (“il tempo è cervello”), consentendo una migliore ripresa dal’ictus. Questi farmaci hanno molte limitazioni (possono provocare un’emorragia cerebrale), quindi possono essere somministrati dal medico solo a pazienti selezionati.
  • Rimozione meccanica del trombo: i medici possono rimuovere il trombo che ha causato l’ictus, introducendo uno speciale catetere nell’arteria cerebrale.
  • Farmaci antiaggreganti: come l’acido acetilsalicilico (aspirina); questi farmaci sono indicati in fase acuta ad eccezione dei pazienti da sottoporre alla terapia trombolitica.
  • Farmaci anticoagulanti (es. warfarin): vengono somministrati in prevenzione secondaria ai pazienti con fibrillazione atriale o altre cause di ictus tromboembolico
  • Disostruzione della carotide in presenza di grave aterosclerosi carotidea (la carotide interna è la grande arteria del collo che porta il sangue al cervello in due modi:
  1. endoarteriectomia carotidea (TEA): il chirurgo apre l’arteria carotide che decorre nella parte laterale del collo e la ripulisce delle placche aterosclerotiche che la ostruiscono
  2. angioplastica e stent: il medico inserisce nella carotide (introdotto da un’arteria dell’inguine) un catetere sormontato da un palloncino che dilata  l’arteria ostruita, inserendo poi  una retina metallica (stent) per mantenerla aperta

Trattamento dell’ictus emorragico

  • Emergenza
    Lo scopo del trattamento è controllare il sanguinamento e  ridurre la pressione intracranica. Fare attenzione ai pazienti già in trattamento con anticoagulanti orali o potenti antiaggreganti piastrinici, farmaci o trasfusioni di emocomponenti, in quanti possono neutralizzare gli effetti di questi farmaci. In caso di emorragie importanti il neurochirurgo può intervenire chirurgicamente per bloccare l’emorragia.
  • Riabilitazione
    Dopo la fase delle terapie di emergenza, il trattamento dell’ictus è mirato a recuperare quanto più possibile le funzioni cerebrali danneggiate dall’ictus. Questo si ottiene con specifici programmi di riabilitazione, che vanno iniziati il più presto possibile (riabilitazione motoria, logopedia ecc.). Si può prospettare il rientro al proprio domicilio, che è ovviamente la soluzione auspicabile, oppure il trasferimento in strutture riabilitative/assistenziali, a seconda del grado di deficit residuo e delle condizioni socio-economiche.

Fase post ricovero

La fase che segue il ricovero è la più delicata perché vanno affrontati i problemi riguardanti il paziente, la famiglia, l’organizzazione degli interventi a livello territoriale; vanno programmati interventi riabilitativi (fisioterapia, logopedia e terapia occupazionale), interventi clinici (terapia antipertensiva, ipolipemizzante, antiaggregante, anticoagulante e il trattamento delle comorbidità, come il diabete, la bronchite cronica, la malattia renale cronica ecc.).

Fondamentale è l’attenzione verso lo stile di vita sano (alimentazione sana e abolizione del fumo), già descritto nella sezione prevenzione; una attenzione particolare va rivolta verso l’attività fisica; infatti è dimostrato che una grave menomazione funzionale causa sedentarietà, che, a sua volta, causa nuove menomazioni, nuove limitazioni funzionali, nuova disabilità con riduzione ulteriore dell’attività motoria e della partecipazione sociale.

Esistono programmi specifici di attività fisica adattata per pazienti con esiti cronici di ictus cerebrale.

Inoltre non va dimenticato il sostegno psicologico al paziente, con la prevenzione alla depressione e il sostegno alla famiglia.

 

Prevenzione

Il 50% degli ictus ischemici potrebbe essere prevenuto modificando lo stile di vita; infatti esso è attribuibile ad una mancata adesione ad uno stile di vita salutare (astensione dal fumo, regolare attività fisica e alimentazione corretta)

Come si può prevenire l’ictus:

  • Smettere di fumare: è molto importante, perché il fumo raddoppia il rischio di ictus (il fumo facilita la formazione di placche aterosclerotiche, danneggia le pareti dei vasi, facilita l’aggregazione piastrinica)
  • Seguire una alimentazione sana: l’alimentazione deve essere varia ed equilibrata; non superare i 5 grammi di sale al giorno; limitare il consumo di grassi, in particolare colesterolo e grassi saturi, contenuti nei prodotti di origine animale; consumare almeno 5 porzioni al giorno fra frutta e verdura; consumare il pesce almeno due volte a settimana; limitare il consumo di dolci; assicurare un adeguato apporto di fibre attraverso il consumo di cereali integrali (pane, pasta e riso) e legumi. Alcuni nutrienti hanno un’azione protettiva: i grassi omega-3 contenuti nel pesce, le fibre, il potassio (contenuto nella frutta e verdura) e il calcio (consumare regolarmente latte scremato  e latticini a basso contenuto di grassi), gli antiossidanti come la vitamina C ed E (contenuti nella frutta e verdura),
  • Esercizio fisico regolare (almeno 30 minuti, tutti i giorni) di tipo aerobio (es. passeggiare a passo svelto, andare in bicicletta, nuotare, ballare, fare le scale a piedi).
  • Dimagrire se in sovrappeso, riducendo la quantità di cibo consumata quotidianamente e aumentando la regolare attività fisica
  • Non eccedere nelle bevande alcoliche; la dose massima consentita: 2 bicchieri di vino al giorno per gli uomini, 1 bicchiere  al giorno per le donne da consumare preferibilmente durante i pasti
  • Controllare la pressione arteriosa regolarmente (se non si è ipertesi, va  controllata almeno una volta l’anno), visto che l’ipertensione rappresenta uno dei principali fattori di rischio per ictus. L’obiettivo da raggiungere è una pressione inferiore a 140/90 mmHg.
  • Controllare il polso e se si ha la sensazione che sia irregolare, parlarne con il proprio medico curante.
  • Controllare i livelli di colesterolemia totale, LDL, trigliceridemia, glicemia, ricordando che i fattori di rischio sono modificabili attraverso un sano stile di vita e se necessario una adeguata terapia farmacologica, che va protratta per tutta la vita, seguendo le indicazioni del proprio medico curante.

Tumore del testicolo

Il tumore del testicolo è un tumore raro che colpisce soprattutto la popolazione giovane (in genere tra i 15 e i 45 anni). Nel 2012 in Italia si sono registrati poco più di 2mila casi.

È uno dei tumori con maggiori probabilità di guarigione: circa il 90% delle persone con una diagnosi di tumore del testicolo è ancora vivo a 10 anni dalla diagnosi.

Esistono diverse forme di cancro dei testicoli, che vengono classificate sulla base della popolazione di cellule che dà origine al cancro.

La gran parte dei tumori del testicolo (il 90-95%) origina dalle cellule germinali cioè quelle cellule che contribuiscono alla formazione degli spermatozoi. In questa categoria si distinguono seminomi e non seminomi.

Segni e sintomi

Il più comune sintomo di tumore al testicolo è un rigonfiamento rilevabile al tatto su uno dei testicoli. Le dimensioni possono essere variabili, il più delle volte non supera quelle di un pisello. Altrettanto frequenti sono il senso di pesantezza e di gonfiore dello scroto. In casi più rari può presentarsi dolore al testicolo o all’addome.

Tutti questi sintomi non sono necessariamente da attribuire al cancro. Se si presentano è però opportuno rivolgersi al proprio medico

Cause

Le cause esatte del tumore del testicolo non sono note. Tuttavia sono stati individuati numerosi fattori che aumentano il rischio di sviluppare la malattia:

  • criptorchidismo: cioè la mancata discesa nello scroto di uno dei testicoli. Nella fase fetale i testicoli dei bambini si sviluppano nell’addome per poi scendere nello scroto all’avvicinarsi della nascita. In alcuni bambini questo fenomeno fisiologico non avviene o non si completa. E, senza un opportuno intervento terapeutico, aumenta il rischio di cancro. Se si ricorre alla chirurgia nei primi anni di vita il rischio di ammalarsi di tumore del testicolo si avvicina a quello della popolazione sana
  • storia familiare: avere parenti che in passato sono stati affetti da questa forma di tumore aumenta il rischio di svilupparlo a propria volta
  • esposizione a interferenti endocrini: diversi studi hanno evidenziato come le persone esposte ad alcuni pesticidi e ad altre sostanze chimiche in grado di agire sul sistema ormonale abbiano un maggiore rischio di sviluppare il tumore del testicolo. Tuttavia, a oggi non sono disponibili prove definitive su questa associazione
  • infertilità: le persone che soffrono di infertilità hanno un rischio tre volte più alto di sviluppare il tumore del testicolo
  • fumo: i fumatori hanno un rischio doppio rispetto ai non fumatori di ammalarsi di cancro del testicolo.

 

Diagnosi

In presenza di sintomi di cancro al testicolo è opportuno rivolgersi al proprio medico che farà una prima valutazione. Basta infatti l’esame clinico per confermare la presenza di anomalie che possano far sospettare un tumore.

Per conoscere la natura esatta delle formazioni, tuttavia, occorre ricorrere a esami più approfonditi, in particolare:

  • ecografia: consente di visualizzare la posizione e le dimensioni dell’anomalia del testicolo. È anche in grado di distinguere se si tratta di una massa solida o liquida (una cisti, per esempio)
  • esami del sangue: spesso il tumore del testicolo rilascia nel sangue sostanze che rappresentano una vera e propria firma (i cosiddetti marker). Quelli caratteristici del tumore del testicolo sono l’Alfa-fetoproteina (AFP), la Beta-gonadotropina corionica (bHGC), la Latticodeidrogenasi (LDH)
  • biopsia: rappresenta l’unico modo per confermare definitivamente la presenza di un tumore del testicolo. Consiste nel prelievo di cellule dalla presunta massa tumorale identificata con gli altri esami che vengono successivamente analizzate al microscopio. In alcuni casi, quando i sospetti sono sufficientemente forti, si preferisce prelevare l’intero testicolo per prevenire il rischio che le cellule tumorali si diffondano nell’organismo. La rimozione del testicolo non compromette la vita sessuale né quella riproduttiva se l’altro testicolo è funzionante.

 

Terapia

Il trattamento indicato per il cancro al testicolo dipende dal tipo di tumore e dal grado di progressione della malattia.

La prima opzione è la rimozione chirurgica del testicolo. Si tratta di un intervento che non compromette la vita sessuale né quella riproduttiva se l’altro testicolo è sano. È inoltre possibile inserire una protesi nello scroto al posto del testicolo rimosso per salvaguardare l’aspetto estetico.

Se il tumore non è circoscritto a un solo testicolo, è necessario tuttavia rimuovere entrambi i testicoli. Questo tipo di intervento rende sterili. È tuttavia possibile, prima di sottoporsi all’operazione, affidare i propri spermatozoi a una banca del seme. Gli spermatozoi possono essere successivamente impiegati per concepire un figlio tramite tecniche di fecondazione assistita.

Oltre alla chirurgia può essere necessario sottoporsi a uno o più cicli di chemioterapia o radioterapia, indicate soprattutto per prevenire recidive uccidendo eventuali cellule tumorali isolate. Anche queste terapie possono però portare a sterilità o a importanti alterazioni della spermatogenesi, per cui è fortemente consigliato, prima di iniziarle, eseguire una crioconservazione del seme per preservare la propria fertilità futura.

In alcuni casi può essere necessario eseguire altri interventi chirurgici per rimuovere linfonodi infiltrati di cellule tumorali.

Prevenzione

Non esistono strategie per azzerare il rischio di sviluppare il tumore dei testicoli. Tuttavia sono efficaci strumenti di prevenzione:

  • l’intervento chirurgico per correggere il criptorchidismo: se eseguito nei primi anni di vita le probabilità di sviluppare il tumore ritornano vicine a quelle della popolazione generale
  • la palpazione: controllare regolarmente la forma e le dimensioni dei propri testicoli è un’ottima strategia per identificare in fase precoce la comparsa del tumore
  • l’astensione dal fumo: il fumo è uno dei pochi fattori di rischio modificabili per prevenire il cancro del testicolo. Smettendo di fumare si dimezza il rischio di sviluppare la malattia.

Tumore del polmone

Il cancro del polmone è una delle più diffuse e gravi forme tumorali. Nel 2012 sono state diagnosticati in Italia quasi 40mila nuovi casi, tre quarti dei quali nel sesso maschile. Nello stesso anno, i decessi per questa forma tumorale sono stati circa 34mila.

Si tratta di una delle forme tumorali a più alta letalità: a cinque anni dalla diagnosi è vivo il 12% degli uomini e il 16% delle donne. Ciò è in gran parte dovuto al ritardo con cui si arriva alla diagnosi: i sintomi del cancro del polmone sono infatti poco specifici (includono tosse, perdita di peso senza apparente spiegazione, fiato corto, dolore al torace, presenza di sangue nell’espettorato) che spesso possono essere confusi con altre patologie.

Esistono due tipi di cancro del polmone:

  • non a piccole cellule di cui a sua volta esistono tre principali varianti istologiche: squamocellulare, adenocarcinoma e a grandi cellule
  • a piccole cellule o microcitoma.

Il cancro del polmone non a piccole cellule è la forma più diffusa, rappresentando quasi il 90% di tutti i casi.

Il cancro del polmone a piccole cellule rappresenta il rimanente 10-12% di tutti i casi: in genere è più aggressivo e si diffonde più velocemente.

 

Segni e sintomi

Spesso il tumore del polmone non dà sintomi chiari finché non si trova in fase avanzata. L’entità e la gravità della sintomatologia aumentano al progredire della malattia. I sintomi più comuni sono:

  • tosse che non si risolve dopo due o tre settimane
  • febbre ricorrente o persistente, non molto alta, spesso non completamente risolta dalla terapia antibiotica
  • sangue nell’espettorato
  • difficoltà respiratoria o vero e proprio affanno
  • stanchezza
  • perdita di peso
  • dolore al petto o alle spalle persistenti e che rispondono poco o per niente agli analgesici.

Sintomi meno comuni sono:

  • cambiamenti nell’aspetto delle dita delle mani, allargate all’estremità (ippocratismo digitale) e con unghie che  assumono una spiccata curvatura, quasi emisferica (a vetrino di orologio)
  • febbre alta associata ad espettorato denso, talvolta maleodorante
  • difficoltà o dolore quando si deglutisce
  • raucedine
  • gonfiore del viso e del collo

 

Cause

I polmoni hanno il fondamentale compito di regolare i livelli di ossigeno e anidride carbonica nell’organismo. Hanno struttura spugnosa “ad alveare”, costituita da innumerevoli micro-celle chiamate alveoli nelle cui sottilissime pareti scorrono capillari sanguigni: l’aria inspirata raggiunge gli alveoli portando ossigeno e ricevendo in cambio l’anidride carbonica, prodotto di scarto del nostro metabolismo.

I due gas attraversano in sensi opposti le pareti degli alveoli, garantendo che il sangue in arrivo al polmone si liberi del prodotto di scarto e si arricchisca di ossigeno prima di uscirne. L’aria giunge ai polmoni attraverso la trachea e i bronchi principali destro e sinistro. Il circolo sanguigno è invece garantito dalle arterie (in entrata) e dalle vene (in uscita) polmonari, anch’esse destra e sinistra. I polmoni sono divisi in regioni anatomiche definite lobi: il polmone sinistro è diviso in due lobi, quello destro in tre. Ogni lobo è un’unità funzionale dotata di un bronco, un’arteria ed una vena dedicati.

Il tumore del polmone è espressione della  crescita incontrollata di cellule dell’apparato respiratorio: i due principali tipi di tumore polmonare originano dalle cellule costituenti gli alveoli (Adenocarcinoma) o da quelle che rivestono la parete interna dei bronchi (Carcinoma squamoso). Entrambi questi tipi tumorali appartengono alla famiglia dei Tumori del polmone non a piccole cellule. L’altra famiglia è invece quella dei Tumori a piccole cellule.

Fattori di rischio

Lo sviluppo del tumore polmonare può essere favorito da diversi fattori di rischio. I principali sono:

  • il fumo di sigaretta: è il principale fattore di rischio per cancro al polmone ed è responsabile di circa il 90% di tutti i casi. Un fumatore di 25 sigarette al giorno ha una probabilità 25 volte più alta di un non fumatore di ammalarsi e una probabilità 15 volte più alta di morire per cancro al polmone rispetto a chi non ha mai fumato. Il fumo di sigaretta contiene infatti più di 60 sostanze tossiche, derivanti dalla combustione sia del tabacco che della carta che lo avvolge, che possono indurre lo sviluppo del tumore. Non è però soltanto il fumo di sigaretta ad aumentare il rischio di sviluppare questa forma tumorale: anche altri tipi di derivati del tabacco e la cannabis possono produrre effetti analoghi. Il fumo passivo è inoltre indirettamente responsabile di circa 600mila decessi l’anno
  • l’esposizione lavorativa ad alcune sostanze impiegate in diversi settori industriali, può aumentare il rischio di sviluppare tumore del polmone. Tra queste sostanze ci sono l’arsenico, l’amianto, il berillio, il cadmio, i fumi di carbone, la silice, il nichel
  • il radon: è un gas radioattivo invisibile, inodore e insapore. E’ prodotto dal decadimento di elementi radioattivi naturali presenti ubiquitariamente nel suolo e nelle rocce (torio, uranio, radio). Il radon diffonde dal sottosuolo di tutto il pianeta ed è presente nell’aria che respiriamo. In condizioni normali la concentrazione di questo gas è bassissima, ma luoghi poco areati e situati in profondità (ad es. le miniere) o abitazioni molto ben coibentate, “sigillate” agli ambienti esterni (in cui il gas può diffondere attraverso microcrepe nelle fondamenta), possono trattenere quantità più elevate di radon.  L’esposizione ripetuta e prolungata ad elevate concentrazioni di radon può danneggiare i polmoni, specie se si è fumatori, ed aumentare il rischio di sviluppare tumori. Si stima che il radon causi tra il 2 e il 5% dei casi di cancro al polmone.

 

Diagnosi

Esistono diverse indagini  utili a confermare il sospetto di cancro del polmone.

La radiografia del torace è in genere il primo esame impiegato poiché si esegue rapidamente e riesce a mettere in evidenza formazioni solide nel contesto del normale tessuto polmonare o altre alterazioni patologiche potenzialmente connesse ad una malattia tumorale polmonare. Tuttavia, sebbene importantissima per approfondire il sospetto diagnostico iniziale, la radiografia non fornisce tutte le informazioni utili a confermare o escludere la natura tumorale di una alterazione del parenchima (tessuto) polmonare. Non è ad esempio in grado di  distinguere una neoformazione solida tumorale da un ascesso, (una raccolta di pus) o un amartoma (una neoformazione benigna). Occorrono altri esami per avere la certezza che si tratti di un tumore e, nel caso, per conoscere la sua aggressività ed estensione.

La Tomografia Computerizzata-TC (possibilmente con mezzo di contrasto, se non esistono controindicazioni) è un esame fondamentale. L’alto potere risolutivo (fino ai 2-3 mm), la capacità di rappresentare la corretta anatomia di organi, vasi sanguigni e tessuti permettono la definizione nelle tre dimensioni di eventuali formazioni solide, di cui quindi è possibile valutare forma, densità, margini, dimensioni e rapporti con le strutture circostanti. Queste caratteristiche fanno della TC, l’esame cardine della diagnostica del tumore del polmone. L’esame TC esteso a tutto il corpo, dal cranio al bacino, permette di valutare l’esistenza di eventuali altre formazioni solide nel resto dell’organismo consentendo di diagnosticare, sospettare o escludere la presenza di metastasi.

Negli ultimi anni nella diagnostica oncologica ha assunto un ruolo fondamentale la Tomografia ad Emissione di Positroni – PET, da sola o in combinazione con la TC. Questo esame è in grado non soltanto di visualizzare anatomicamente il tumore, ma anche di mostrarne l’attività metabolica, aumentando le possibilità di distinguere una formazione benigna (solitamente ad attività molto bassa o nulla) da una tumorale (il più delle volte ad elevata attività). La PET è spesso fondamentale anche per “stadiare” la malattia tumorale accertata, potendo mostrare e confermare la natura neoplastica di eventuali localizzazioni ad altri organi (metastasi).

Per conoscere la natura esatta della forma tumorale è tuttavia necessario un esame istologico, vale a dire un’analisi al microscopio del tessuto tumorale. Esistono diverse modalità di prelievo del campione di tessuto:

  • la broncoscopia (o broncofibroscopia) consente di raggiungere i polmoni con un sottile strumento flessibile dotato di telecamera (broncoscopio a fibre ottiche o broncofibroscopio), fatto passare attraverso la bocca o il naso, che viene guidato lungo la trachea fino ai bronchi. Attraverso il broncoscopio possono essere introdotti piccoli strumenti flessibili che permettono di eseguire biopsie della parete bronchiale o del tessuto polmonare al di là di essa (biopsie trans-bronchiali) o di eseguire agoaspirati dei linfonodi che si trovano intorno ai bronchi
  • la biopsia con ago sottile (agoaspirato o Fine Needle Aspiration Biopsy – FNAB): si esegue quando la formazione sospetta si trova nel parenchima polmonare periferico, troppo distante dai bronchi raggiungibili con la broncofibroscopia. La tecnica prevede che si raggiunga la lesione solida polmonare attraversando la parete toracica con un lungo ago sottile. Il percorso dell’ago viene guidato dalla TC o, più raramente, dall’ecografia (Agoaspirato TC-guidato o Eco-guidato, rispettivamente). Il campione prelevato con questa metodica è costituito da materiale semi liquido ricco di cellule. In alcuni casi, però, è possibile eseguire con la medesima tecnica vere e proprie biopsie utilizzando aghi di maggior calibro o cosiddetti “trancianti”, ottenendo così frammenti di tessuto solido, che possono facilitare la diagnosi o renderla più precisa
  • analisi dell’espettorato: in alcuni casi, cellule tumorali possono essere rilevate anche nello sputo del paziente.

 

Terapia

tipo di trattamento impiegato per il cancro del polmone dipende da numerosi fattori:

  • il tipo di tumore (non a piccole cellule o a piccole cellule)
  • le dimensioni e la posizione del tumore
  • lo stadio
  • lo stato di salute generale del paziente.

A seconda delle condizioni si può optare per la chirurgia, la radioterapia, la chemioterapia o una combinazione di esse.

Chirurgia

Esistono tre opzioni di tipo chirurgico:

La resezione atipica e la segmentectomia sono due tecniche che comportano la rimozione di una piccola porzione del polmone (più piccola del lobo). Vengono impiegate soltanto per tumori ai primissimi stadi limitati a una piccola parte di polmone e in pazienti che non possono sopportare resezioni polmonari più ampie per limitazioni funzionali respiratorie e/o cardiologiche. Questi interventi non rappresentano la prima scelta per la terapia chirurgica del tumore del polmone, poiché non garantiscono la radicalità della resezione.

La lobectomia consiste nella rimozione di uno o (soltanto nel caso del polmone destro) due lobi. È possibile quando il tumore è circoscritto a una di queste aree polmonari e rappresenta l’intervento di scelta, ovvero quello che offre le maggiori garanzie di radicalità dell’asportazione del tumore

La pneumonectomia è l’intervento di scelta nei casi in cui il tumore del polmone coinvolga tutto il polmone, oppure il bronco principale o l’arteria polmonare. Consiste nella rimozione dell’intero polmone.

Chemioterapia

La chemioterapia consiste nell’impiego di potenti farmaci in grado di uccidere le cellule tumorali o rallentarne la diffusione. In caso di cancro del polmone la chemioterapia può essere usata:

  • prima della chirurgia per ridurre la massa tumorale (neoadiuvante o di induzione)
  • dopo la chirurgia per ridurre le probabilità che il cancro si ripresenti (recidiva), in tal caso viene definita adiuvante
  • per alleviare i sintomi e rallentare la progressione del tumore nei casi in cui una cura non sia possibile
  • insieme alla radioterapia per tutti e tre gli scopi precedenti.

La chemioterapia per il cancro al polmone può essere somministrata per via endovenosa o per via intrapleurica (la somministrazione avviene cioè nell’intercapedine compresa tra i due strati della membrana che riveste da un lato la cavità toracica e dall’altro i polmoni).

Radioterapia

La radioterapia usa le radiazioni per distruggere le cellule tumorali. Può essere impiegata sia dopo la chirurgia, sia per controllare i sintomi e rallentare la progressione del tumore quando non è possibile una cura.

La radioterapia può essere somministrata sia dall’esterno, sia dall’interno.  Nella radioterapia esterna le radiazioni ionizzanti sono emesse da un apparecchio che si trova all’esterno del corpo del paziente. Nel caso della radioterapia interna il trattamento viene effettuato tramite sostanze radioattive introdotte all’interno dell’organismo. Il trattamento consiste nell’introduzione nelle vie aeree di un catetere all’interno del quale viene inserita una piccola quantità di materiale radioattivo

 

Prevenzione

Poiché circa il 90% di tutti i casi di cancro al polmone sono connessi al fumo, la più efficace strategia di prevenzione di questa forma tumorale è non fumare.

Anche nei casi in cui si è fumatori, smettere consente di ridurre drasticamente le probabilità di ammalarsi. Dopo 10 anni che non si fuma il rischio di ammalarsi si dimezza rispetto a un fumatore.

Infarto del miocardio

L’infarto è la morte di una parte del muscolo cardiaco (miocardio), dovuta a un’ischemia prolungata, cioè al mancato apporto di sangue in un determinato territorio, per un certo periodo di tempo.

La maggior parte degli infarti si verifica a causa della formazione di  un coagulo di sangue (trombo) che va ad ostruire una o più arterie coronarie (le arterie che portano sangue ossigenato e sostanze nutritive al muscolo cardiaco); normalmente la trombosi si verifica su una placca aterosclerotica dovuta ad un accumulo di colesterolo e cellule, che si sviluppa lentamente all’interno di una coronaria e che può rompersi improvvisamente; questa lesione provoca l’aggregazione di piastrine e la formazione di un trombo sulla placca ulcerata; il trombo ingrandendosi finisce con l’ostruire completamente la coronaria, interrompendo il flusso di sangue. Se il coagulo non viene rimosso rapidamente, la zona di miocardio irrorata da quell’arteria muore e si verifica l’infarto. Più raramente, l’infarto può prodursi su coronarie sane, cioè senza la presenza di placche aterosclerotiche; questa condizione  provoca una discrepanza tra la necessità di ossigenazione di una parte del tessuto miocardico e la sua effettiva disponibilità; ciò accade ad esempio quando si verifica uno  spasmo delle coronarie, oppure in una condizione di grave anemia, di insufficienza respiratoria, di grave abbassamento della pressione, di aritmie importanti. L’infarto colpisce gli uomini con maggior frequenza rispetto alle donne nelle età più giovani; le donne sono colpite con maggiore frequenza in età avanzata e la malattia si manifesta in modo più grave.

Nella fase acuta dell’infarto, le complicanze più importanti sono l’insorgenza di aritmie, che possono rivelarsi anche molto pericolose (per questo motivo il paziente viene sottoposto a monitoraggio continuo dell’elettrocardiogramma), e di un deficit della funzione di pompa del cuore (scompenso cardiaco).

Fattori di rischio

I fattori di rischio dell’infarto del miocardio sono:

  • Età
  • Colesterolemia elevata   (aumento della colesterolemia totale >200 mg/dl in presenza di una quantità bassa di colesterolo HDL <50 mg/dl)
  • Ipertensione arteriosa (>140/90mmHg)
  • Diabete mellito
  • Sovrappeso/obesità (indice di massa corporea >25 kg/m2)
  • Familiarità (genitori, fratelli/sorelle, figli) per  infarto, ictus in giovane età (<55 anni per gli uomini e <65 anni per le donne)
  • Uso di droghe (cocaina e amfetamine)

Questi fattori sono spesso la conseguenza di uno scorretto stile di vita: alimentazione troppo abbondante e ricca di sale, grassi animali e colesterolo, e povera di fibre, ridotta attività fisica e abitudine al fumo di sigarette. Nelle donne il fumo di sigaretta è particolarmente dannoso, soprattutto se associato all’uso di contraccettivi orali.

 

Sintomi

Il sintomo più caratteristico dell’infarto è il dolore, che può restare localizzato e limitato al torace o irradiarsi alle spalle e alle braccia (più comunemente il sinistro), al collo, alla mandibola, ai denti, al dorso. Il dolore può assumere la caratteristica di oppressione toracica (come una morsa stretta intorno al torace o come un peso che schiaccia il torace) o di mal di stomaco, come per un’indigestione. Il dolore può essere violento; dura in genere 20 minuti o più; può essere parzialmente e temporaneamente alleviato dal riposo o dall’assunzione di nitroglicerina sublinguale. Il dolore può non essere presente o essere trascurabile negli anziani, nelle persone con diabete e nelle donne. L’infarto può dar segno di sé anche con altri sintomi: affanno improvviso (dispnea), sudorazione fredda, nausea e vomito, svenimento, vertigini improvvise, stato d’ansia, debolezza marcata e improvvisa (astenia). È importante ricordare che l’infarto rappresenta un’emergenza. Nel sospetto che si stia verificando un infarto è necessario non perdere tempo (le ore successive all’infarto sono gravate dal rischio di morte improvvisa) e chiamare immediatamente il 118 per essere trasportati da un’ambulanza verso l’ospedale più vicino.

 

Diagnosi

La diagnosi di infarto acuto viene fatta in presenza di un aumento dei cosiddetti biomarker cardiaci (in particolare troponina I o T, o CKMB – creatinchinasi-MB), associata ad almeno uno dei seguenti segni/sintomi:

  • dolore tipico dell’ischemia miocardica
  • alterazioni all’elettrocardiogramma (ECG) suggestive di ischemia (ad esempio sopraslivellamento del tratto ST, inversione delle onde T, comparsa di onde Q)
  • evidenza (ad esempio all’ecocardiogramma) di alterazione della motilità di una regione del cuore
  • individuazione di un trombo all’interno di una coronaria alla coronarografia

 

In presenza di un aumento dei valori di troponina e di alterazioni all’ECG suggestive di infarto, il paziente può essere avviato direttamente dal pronto soccorso alla sala di emodinamica, dove viene sottoposto ad esame angiografico (coronarografia). L’esame consiste nell’iniettare nelle coronarie (ci si arriva introducendo un catetere da un’arteria dell’inguine o del polso) un mezzo di contrasto e nell’osservare radiograficamente come vengono “colorate” da questo liquido di contrasto le coronarie. Nel caso in cui venga rilevata l’ostruzione, responsabile dell’infarto, il cardiologo decide se procedere al trattamento mediante angioplastica.

L’ecocardiogramma è un esame che sfrutta gli ultrasuoni per fornire un’immagine del cuore in movimento; nel caso di un infarto acuto l’esame può aiutare a localizzare la zona di miocardio danneggiata, rivelandone delle alterazioni di movimento, dovute ad un deficit della funzione contrattile del cuore.

 

Terapia

All’arrivo in pronto soccorso, il paziente infartuato viene sottoposto a monitoraggio elettrocardiografico continuo, gli viene somministrato ossigeno e, in caso di dolore molto forte, piccole dosi di morfina per via endovenosa. Nelle prime ore dall’infarto, l’obiettivo della terapia è riaprire i vasi coronarici occlusi per evitare la morte del muscolo cardiaco; queste terapie devono essere effettuate quanto più precocemente possibile (idealmente, l’angioplastica entro 60-90 minuti dall’arrivo in ospedale, la terapia trombolitica entro 30 minuti dalla prima valutazione medica dell’infartuato, tanto da poter essere effettuata anche in ambulanza), altrimenti la parte di miocardio interessata dall’infarto non è destinata a sopravvivere all’insulto ischemico. Per questo i cardiologi dicono che “il tempo è miocardio”, a sottolineare che tanto più precocemente si interviene, tanto più si ha la possibilità di salvare dalla morte il muscolo cardiaco. Il trattamento di prima scelta per l’infarto del miocardio è l’angioplastica coronarica, che consiste nel dilatare la coronaria occlusa dal trombo, mediante uno speciale “palloncino” e nel posizionare nella coronaria riaperta uno (o più) stent, una retina metallica, che serve a “puntellare” la parete dell’arteria; la retina metallica può essere ricoperta di farmaci (stent medicato) che hanno lo scopo di evitare che si formi, nel punto in cui l‘arteria è stata dilatata, una specie di cicatrice esuberante che potrebbe ostruire nuovamente il vaso. Nel caso in cui non sia possibile effettuare l’angioplastica (ad es. se l’ospedale dove viene trasportato il paziente non è attrezzato per effettuare questa procedura), il paziente può essere trattato con farmaci che servono a sciogliere il trombo (terapia trombolitica), somministrati per via endovenosa. I pazienti infartuati vengono inoltre trattati con farmaci che hanno lo scopo di minimizzare le complicanze ed evitare la comparsa di un nuovo infarto.

  • Farmaci antiaggreganti piastrinici (ac. acetilsalicilico, clopidogrel ecc.): le piastrine hanno un ruolo di primo piano nella formazione del trombo; questi farmaci inibiscono la formazione di “tappi” di piastrine e sono dunque molto importanti nella prevenzione di un nuovo infarto.
  • Farmaci che riducono la colesterolemia (es. statine): hanno un ruolo importante nel riportare alla norma i valori di colesterolo e nello stabilizzare la placca aterosclerotica, riducendo il rischio della sua rottura ed evitando la formazione del trombo.
  • Beta-bloccanti: riducono il lavoro del cuore, abbassando la frequenza cardiaca (il numero di battiti al minuto).
  • ACE inibitori e sartani: sono farmaci che, oltre ad agire sulla pressione, abbassandola, proteggono dallo “sfiancamento” del cuore, che si può verificare quando l’infarto è di grandi dimensioni.
  • Trattamento dei fattori di rischio (es. ipertensione arteriosa, diabete mellito, ecc)
  • Modifiche dello stile di vita
  • Trattamento della depressione che può insorgere dopo un infarto.

 

Prevenzione

L’infarto del miocardio può essere prevenuto trattando i fattori di rischio (es. ipertensione arteriosa, diabete mellito ecc) e modificarndo il proprio stile di vita. In particolare è importante:

  • Seguire un’alimentazione sana, ricca di fibre (frutta e verdure) e pesce, povera di grassi saturi (quelli di origine animale, carni rosse, salumi, insaccati, formaggi) e con il giusto contenuto di calorie La verdura e la frutta sono molto importanti perché oltre ad essere ricchi di fibre, sono molto  ricche di potassio: una alimentazione del genere tipica dell’area mediterranea dei primi anni ’60 aiuta ad abbassare la pressione di circa 8-14 mmHg
  • Ridurre gradualmente la quantità di sale aggiunto alle pietanze e i cibi saporiti (dado da cucina, cibi in scatola, carne, tonno, sardine, alici ecc, salse, sottaceti, formaggi, salumi e insaccati) e la quantità di cibo che si mangia. La quantità di sale introdotto nella alimentazione, infatti, dipende sia dal sale aggiunto da noi nella preparazione del cibo, sia dalla quantità di cibo che si mangia. La quantità di sale che si consuma nella giornata non dovrebbe superare i 5 grammi al giorno (un cucchiaino da tè). E’ interessante notare che un etto di prosciutto crudo contiene già i 5 grammi di sale raccomandati per l’intera giornata. E’ importante quindi leggere sempre l’etichetta dei prodotti confezionati che comperiamo, in modo da valutare la quantità di sale: se si mangia un prodotto salato è importante compensare con un altro senza o con basso contenuto di sale. Consumare non più di 5 g di sale al giorno riduce la pressione arteriosa fino a 6-8 mmHg.
  • Limitare il consumo di alcol (non più di 1 bicchiere di vino al giorno per le donne, non più di 2 per gli uomini)
    Con la riduzione dell’alcool la pressione si può ridurre di 2-4 mmHg.
  • Scendere di peso, in caso di sovrappeso/obesità: ogni 10 Kg di peso persi, la pressione arteriosa si riduce di circa 5-10mmHg.
  • Praticare regolare attività fisica aerobica (almeno 30 minuti di camminata a passo veloce, bicicletta, nuoto, per almeno 5 volte/settimana): l’aumento dell’attività fisica produce la riduzione di 4-9 mmHg.
  • Smettere di fumare
  • Imparare a gestire lo stress (yoga, tecniche di meditazione e di rilassamento, pilates ecc.)